Con l’improvvisa epifania del nazionalismo russo in Ucraina, l’Europa rischia di cadere in un precipizio che è anche esistenziale. C’è chi lo ha capito molto bene. Per esempio, Mario Draghi. Il presidente del consiglio italiano, campione di europeismo e atlantismo, non solo ha sposato immediatamente la linea di reazione all’intervento militare di Mosca, ma è stato decisivo per la definizione delle sanzioni alla banca centrale russa con il congelamento delle riserve in valuta estera. In un colpo solo, Draghi ha portato sulla sua posizione la segretaria del Tesoro americano Janet Yellen e ha colto Mosca di sorpresa. Ma il premier ha un problema in casa: la sua posizione euro-atlantica gode della garanzia offerta da Sergio Mattarella dal Quirinale, ma quando si passa alla maggioranza parlamentare la faccenda diventa molto più complicata.

Il miracolo dell’unità nazionale poggia su un fragile equilibrio. Due formazioni cruciali – Lega e M5s – sono eredi di orientamenti esplicitamente filorussi e antieuropei, in aperta contraddizione con la storia della politica estera italiana. Viceversa, il premier non può fare affidamento su un proprio partito. E così la coalizione è esposta a continue fibrillazioni. In questo scenario, il Pd di Enrico Letta può acquisire un ruolo baricentrico. Fin dall’inizio del conflitto, il segretario dem si è posizionato in modo netto dalla parte dell’Unione europea e della Nato, ha chiesto le sanzioni più dure possibili contro la Russia, ha chiarito che l’attacco di Mosca contro Kiev è un attacco ai valori dell’Occidente, alla democrazia, alla libertà. Una posizione chiara, in linea con il presidente del consiglio, che aiuta il governo italiano a contare di più al tavolo degli alleati e accresce la credibilità internazionale del nostro paese.

Così come Mario Draghi sente forte il richiamo e l’eredità politica di Alcide De Gasperi, Enrico Letta si ispira alla lezione del suo maestro Beniamino Andreatta, docente di economia a Bologna e politico attivo nella Dc, nel Ppi e nell’Ulivo, più volte ministro. Gli ultimi incarichi da statista di Beniamino Andreatta, prima del malore che lo colse in Parlamento portandolo al coma, fu da ministro degli esteri, prima, e della difesa, poi. Come ministro della difesa, Andreatta ottenne dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu il ruolo di guida per l’Italia durante la Missione Alba (un’operazione di peacekeeping e d’aiuto umanitario all’Albania interamente gestita da forze europee) e propose più volte di costruire e organizzare una vera forza di difesa internazionale europea. Una lezione ancora attuale. Da un lato, Andreatta mise in primo piano l’esigenza di modernizzare la sicurezza militare italiana, riducendo gli sprechi e migliorando l’efficienza. Dall’altro, promosse una maggiore integrazione delle politiche di difesa dei paesi europei, ma all’interno del patto atlantico. Obiettivo: costituire un polo di sicurezza europeo capace di bilanciare la forza dell’alleato americano in una logica di maggior cooperazione e condivisione di responsabilità.

Impegni che appaiono oggi di drammatica e urgente attualità. Basti pensare alle novità sconvolgenti provocate dall’aggressione russa dell’Ucraina, come il riarmo della Germania (Berlino promette di investire 100 miliardi per le spese militari) e la richiesta di adesione alla Nato di paesi neutrali come la Finlandia e la Svezia. Forte della eredità di Beniamino Andreatta, Enrico Letta non ha avuto alcun tentennamento sulla posizione da assumere nella crisi in corso, pure a dispetto degli orientamenti antiamericani che attraversano tradizionalmente buona parte della sinistra e che rappresentano la carta d’identità del M5s, quello che dovrebbe essere il principale alleato. Consapevole del conflitto di civiltà in corso, nel quale l’Italia è chiamata schierarsi con i valori dell’Occidente, Letta interpreta plasticamente la lezione atlantica di Alcide De Gasperi, di  Beniamino Andreatta e, oggi, di Sergio Mattarella. Non bisogna infatti dimenticare che il presidente della Repubblica è stato anche il ministro della difesa che ha guidato l’Italia nell’intervento umanitario della Nato nella ex Jugoslavia. 

È vero che, in Parlamento, tutti i partiti della maggioranza, anche a dispetto delle loro posizioni filoputiniane precedenti, si sono schierati contro l’invasione russa dell’Ucraina. Ma nessuno finora è stato così netto come il segretario del Pd. Fin dall’inizio Letta ha sposato la linea dura sulle sanzioni contro Mosca e ha chiesto un sostegno maggiore delle democrazie al governo ucraino. Così facendo ha fatto del Partito democratico il perno di fatto dell’euroatlantismo di Mario Draghi. Questa posizione, ovviamente, crea dei malumori aperti tra le fila dei grillini: basti pensare alla recente polemica di Giuseppe Conte sulle spese militari. Altri malumori, spesso silenziosi, esistono nello stesso partito di Letta. Le preoccupazioni montano soprattutto da quando il segretario ha preso un’altra posizione netta sulla questione dell’embargo del gas. Il 3 aprile scorso, dopo la scoperta dei massacri di Bucha, Letta affida il suo pensiero a un tweet inequivocabile: “Quante Bucha servono prima di passare a un embargo completo su petrolio e gas russi? Il tempo è finito”.

Si capisce bene che la misura “finale” – cioè l’embargo totale – significa colpire Putin in maniera completa e definitiva, ridurre al tappeto l’economia russa, impedire il rifinanziamento della campagna militare. Ma una misura così estrema, se adottata a breve, comporterebbe inevitabilmente delle ripercussioni pesanti sulla vita degli italiani, sia nelle famiglie come nelle imprese. È facile immaginare che Lega, M5s e Fdi potrebbero cavalcare sempre di più la paura per i costi economici e sociali della guerra e dell’embargo. Per Salvini e Conte è un’occasione ghiotta per lucrare un posizionamento elettorale in vista del 2023. Proprio per questo, un brivido comincia a percorrere anche le correnti interne del Pd, preoccupate che il partito possa essere bollato come guerrafondaio responsabile dell’impoverimento degli italiani, saldando così le pulsioni antiatlantiche, antieuropee e filorusse di destra e di sinistra.

“C’è chi mi dice che perdiamo voti con questa posizione così netta sulla guerra di Putin. I voti si perdono e poi si possono riguadagnare. La dignità no, una volta persa non la riprendi più. E la credibilità di un’idea politica si basa sulla dignità delle scelte”: così Letta ha risposto ai suoi detrattori su Twitter il 10 aprile scorso. Il segretario, insomma, tiene il punto. Sulla sua linea, il Pd potrebbe riconquistare la sua vocazione maggioritaria e diventare il pilastro principale del successo del governo Draghi? È una scommessa audace sostenuta da molte buone ragioni. Il rischio di impopolarità è alto, ma una scelta di campo così seria potrebbe, alla lunga, pagare.

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