La più grande illusione che si sta drammaticamente diffondendo nel sentire comune, è che la strategia per l’annientamento economico della potenza russa, in ritirata tra camere crematorie e fosse comuni, non accentui il cammino verso l’irreparabile conflitto generalizzato ma abbia un effetto miracoloso e perciò, dopo l’impoverimento siberiano, si annuncia la pace perpetua. Un paradiso ritrovato e, quale unico suo costo, la tollerabile rinuncia al condizionatore d’aria durante l’estate. Se vuoi la pace, sostiene anche Letta, devi accelerare drasticamente nelle nuove sanzioni contro il carnefice russo nella consapevolezza che, contraendo l’uso del gas o del petrolio (qualcuno impedisce anche la restituzione delle opere d’arte esposte proprio in Italia), nulla è a costo zero.

Eppure c’è chi dice no a questa nuova declinazione identitaria del Pd che, per stare saldamente nel fronte del bene, suggerisce di eliminare dubbi, sfumature e di aspettare che solo dalla radicalizzazione dello scontro possa scaturire la de-escalation grazie alla contestuale sterilizzazione del macellaio di Mosca. Calenda e Renzi, con una indubbia lucidità superiore, si sono proposti quali campioni di una politica che, nel pur doveroso schierarsi senza esitazione con l’aggredito, non rinuncia alla ragione e alla costruzione di altri scenari possibili. Invece Letta, nel suo prendere parte nel fronte orientale con la voce del primo della classe, ha lasciato cadere ogni cenno al controllo geo-politico del conflitto. La sua impostazione atlantista (ovunque nel mondo, dichiara, “non ci sono processi alla Nato, ma appelli alla protezione della Nato”) è stata sinora accolta nel Pd con un unanimismo che non si avvertiva, nei termini di un’obbedienza così supina, neppure ai tempi più conformistici del centralismo democratico. Persino Cuperlo è apparso in Tv molto disciplinato nella difesa della nuova linea di scontro che pare ineluttabile per via dell’incrocio tra lo sdegno dinanzi alle invasioni barbariche e la certezza della vittoria che conquista il Pentagono.

L’agenda Letta, quando archivia le risorse dell’iniziativa politico-diplomatica, sembra imporre un taglio netto con le memorie di una sinistra che non ha solo il carro armato quale destino ma indica nella sua vicenda anche lo sforzo di conciliare le alleanze con Washington con l’autonomia nazionale. Non stupisce che adesso qualcosa si muova, con il presidente della Campania che, per una volta, esce allo scoperto con delle preoccupazioni fondate. Prima di lui Enrico Rossi, l’ex presidente della regione Toscana, era scappato dal coro della parrocchietta per denunciare il rischio di un tradimento delle categorie di Moro o Berlinguer compiuto con le ineffabili pose passive a sostegno di Zelensky (“la Nato doveva fare entrare l’Ucraina prima” secondo la novella dottrina Letta). Nella sua lettera a Santoro il leader Letta sembra, per i toni e le spinte radicali all’inasprimento dello scontro, molto più il segretario (in pectore?) della Nato che non il leader del Pd quale partito chiamato alla sintesi dinamica dei diversi riformismi repubblicani.

È significativo che nel suo nuovo linguaggio politico, molto diverso da quello estivo che era attraversato da una radicalizzazione di segno inverso (no a tutte le guerre per la democrazia bollate come “le guerre sbagliate dell’Occidente”), il leader del Pd recuperi l’immaginario della guerra fredda. Con un crescendo contro i carri armati sovietici, recupera la comunicazione di Andreatta ai tempi del tentativo fallimentare di dare l’assalto al municipio rosso di Bologna. L’attuale cultura delle relazioni internazionali nel Pd è molto più calibrata sulle corde laiche di Spadolini che non sulle vedute tradizionali delle varie sinistre italiane. Oltre alle memorie post-comuniste e alle bandiere dei grandi movimenti pacifisti, Letta trascura che anche la Dc e più in generale l’universo cattolico ha avuto un’anima pacifista-irenica e una componente realista e comunque dialogante con l’Urss, con il Medio Oriente, i palestinesi. E dimentica soprattutto che uno dei tratti più significativi della politica estera del dopoguerra fu raggiunto con la crisi di Sigonella. Emerse allora Craxi (cui non mancò il sostegno di Andreotti) come un gigantesco statista che contrappose i carabinieri ai marines. L’eco della sua azione fu tale che persino Bassanini, fresco di abbandono del Psi, ebbe in quei giorni, se non dei tentennamenti, comunque delle parole di esaltazione verso il leader socialista capace di un clamoroso gesto di autonomia e sovranità.

Nel dibattito alla Camera, alla rottura con Spadolini si accompagnò una delle rare pagine di unità socialista, con i banchi del Pci a dedicare grandi applausi a quel Bettino Craxi contro cui si era-no accaniti alcuni mesi prima con toni esacerbati nel referendum sulla scala mobile. Lo spirito del 1985 andrebbe considerato fondativo. Le sinistre post-comuniste hanno organizzato sensibilità di pace, movimenti di massa per la risoluzione secondo giustizia delle controversie mondiali. Tutte queste esperienze non possono essere sbeffeggiate con politiche di armamenti, di escalation militare, di forzatura del dettato costituzionale. E i socialisti hanno scritto le pagine più ricche del-la politica estera italiana entro una ottica di governo radicato nello schieramento occidentale. Dalla prova di autonomia combattente fornita da Craxi nel 1985 alla lettura di De Michelis della natura evocativo-dissolutrice della questione jugoslava, i socialisti hanno mostrato che il realismo e la collocazione internazionale nel blocco atlantico non equivalgono a servilismo e subalternità.

La nuova strategia politica di Letta, che sceglie la tradizione di Spadolini e Andreatta e scarta tutte le altre sensibilità laiche e cattoliche, accontenta i media unificati che lo esaltano come il gemello diverso della Meloni quale puntello della nuova fase della repubblica a base atlantista più che europea. Questa curvatura lascia però spazi enormi nei quali si indirizza Conte per tentare la inopinata ripresa del populismo grillino. Solo l’approccio unilaterale e semplicistico di Letta è stato capace di restituire una piena visibilità pubblica al dialetto strumentale dell’avvocato del popolo. Con un opportunismo estremo, egli cavalca le parole d’ordine del costituzionalismo democratico e l’immaginario pacifista con l’intento di occupare uno spazio politico pericolosamente incustodito.

Assumendo il dato bellico come il valore ideale da contrapporre al volgare calcolo degli interessi economici, Letta accantona la rude dimensione materiale che però sempre determina le scelte dell’elettorato popolare. Se si considera che l’Ungheria e la Serbia siano delle brutte province di una zona barbarica, che ci si ostina a chiamare anch’essa Europa, è possibile ignorare del tutto il successo riscosso dalle forze putiniste. Se invece si crede alla esistenza di un ciclo politico europeo a grandi linee comune, e al quale in certa misura appartengono anche le pittoresche competizioni orientali, è possibile scrutare entro le dinamiche dell’est per cogliere in esse qualcosa che potrebbe incidere anche nelle opzioni dell’elettorato italiano e vetero-europeo. Basterà forse attendere le presidenziali francesi per avere la conferma riguardo all’impatto dei timori economico-materiali nelle scelte di voto dei ceti popolari. Se domenica si registrerà a Parigi una qualche ripresa della Le Pen, che gli osservatori davano in forte imbarazzo per le scomode frequentazioni russe, vorrà dire che Letta, con l’invocazione delle misure “più letali per l’economia russa”, ha sbagliato le sue carte e deve ricalibrare con urgenza la strategia.

È obbligata l’asserzione per cui, per combattere i massacri e gli orrori, bisogna solo generalizzare le sanzioni e rischiare, con l’azzoppamento delle fonti della ricchezza russa, anche la distruzione dell’economia europea? Stare solo sul piede della escalation, senza svolgere alcun ruolo attivo di carattere politico nella cura della follia strategica putiniana, non è affatto una grande prova di forza. Se le immagini delle atrocità ripongono la politica nel mondo dell’inservibile, allora non bastano battute sui condizionatori perché inevitabile potrebbe presto risultare il contagio che dal terreno dell’economia si estende sino alle trincee. Dinanzi alla guerra permanente (economico-civile-ideologica-militare), che si profila dinanzi a un pubblico indotto ad accettare l’imponderabile da immagini strazianti che giungono anche dai droni, occorre una assunzione di responsabilità esplicita.

Le conseguenze della strategia dell’escalation non si evocano con giochi di parole sulla calura estiva ma richiedono un discorso trasparente sul destino di una guerra lunga che richiede anche razionamenti, addestramento e prove di mobilitazione. È questo lo scenario inevitabile che, archiviando la politica del coinvolgimento attivo dei grandi attori mondiali come una sterile utopia, il governo tratteggia per contenere la barbarie russa?