Tensione alle stelle, nel Movimento. Perché a 48 ore dall’avvio della partita del Quirinale la bomba-Grillo sul caso Moby rimbomba, malgrado il silenzio delle tv amiche. «Qualche riguardo in più degli altri casi, la tv pubblica lo sta mostrando», commenta il deputato di Iv Michele Anzaldi, commissione vigilanza Rai. «Il giorno stesso dell’avviso di garanzia a Grillo, la notizia non è uscita. Mentre per Mediaset e Sky era il titolo di apertura, Tg1 e Tg3 non hanno fatto alcun servizio». La sordina c’è, ma la detonazione è troppo forte. Più ancora di quanto sia saltato agli occhi dei cronisti.
Perché emerge che la Beppe Grillo Srl, con sede legale in Piazza della Vittoria a Genova, effettua servizi di sostegno ad aziende dal punto di vista mediatico e non solo: fattura attività che al di là della facciata si rivelano di public affairs e di lobbying vera e propria. Lo mette in luce l’accertamento dei primi tabulati sui cinque telefoni sequestrati dalla Guardia di Finanza: vi si ritrova la voce del fondatore e Garante del Movimento che scrive ai suoi deputati di intervenire, di votare in un modo preciso a sostegno delle aziende committenti. «Siamo nell’ambito penale, non c’è dubbio», taglia subito corto il prof. Salvatore Curreri, giurista che figura tra i massimi esperti di leggi anticorruzione. Ma non di solo traffico di influenze illecite si tratterebbe. L’attività imprenditoriale di Beppe Grillo, nel rappresentare gli interessi di aziende in Parlamento, fa strame dell’intera Spazzacorrotti. «Perché agisce non solo da persona politicamente esposta ma da leader di partito e rappresenta un conflitto di interessi palese. Evidentissimo», rincara il professor Curreri.
Laddove non si abbia letto lo statuto M5S – pur ritoccato di recente da Conte – con il ruolo egemone del Garante, si parli con un qualsiasi deputato del gruppo Cinque Stelle. Quando il Garante manda una indicazione di voto parlamentare a un destinatario che dovrà poi ricandidare o meno, non si tratta di un suggerimento o di una preghiera, ma di un ordine ben preciso. Di un diktat. «Grillo da questo punto di vista è vittima di se stesso: ha creato un insieme di trappole nelle quali si è poi infilato da solo. Sfruttando il suo potere interno per mettere in atto una mediazione in Parlamento a favore di clienti privati, dietro pagamento, pone un problema penale enorme», prosegue Curreri. «Hanno accentuato loro la necessità di sterilizzare al massimo i contatti tra interessi privati e attività politica in Parlamento, ma nella pratica Grillo ha agito esattamente al contrario». Se integra o no un reato, è chiaro, sta alla magistratura stabilirlo. Quello che si fa evidente è la tempesta perfetta che Grillo ha costruito.
Il Movimento ha capito di avere un problema enorme, e la prudenza di Conte e Di Maio sulla vicenda Moby è eloquente. Se la magistratura decidesse di indagare seriamente, sarebbe la fine: le vicende Moby e Philip Morris trascinerebbero sottoterra quel che resta dei fasti grillini. Il mondo dei lobbisti è sul chi vive, è in discussione alla Camera – riprenderà dopo il voto del PdR – il testo della nuova regolamentazione del settore. «Il caso Grillo rende evidente l’esigenza di una regolamentazione dell’attività lobbistica», ci dice Simone Dattoli, Amministratore Delegato di Inrete, società che si occupa di consulenza strategica, lobbying e advocacy. «Quando ci sono di mezzo stakeholder istituzionali – spiega – aziende e attività lobbistica, non c’è mai una via semplice. Il caso Grillo rende ancora più caldo un tema che viene affrontato in questi giorni anche alla Camera, in occasione della discussione del testo di legge che riguarda il lobbying». Va detto che in tre anni di governo a guida Conte, l’argomento è rimasto tabula rasa. In più, c’è un problema di spesa corrente. Servono finanziamenti, la politica in democrazia ha i suoi costi.
L’entourage di Conte è allarmato. Il via libera chiesto dall’ex premier per iscrivere il soggetto politico al registro dei partiti politici e beneficiare così del 2 per mille, agguantato all’ultimo secondo con il voto online del 28 novembre scorso, non è servito. Il M5S è fuori dal registro. «Perché non era adeguato, avendo presentato le carte all’ultimo secondo», arguisce il professor Curreri. «Ma anche perché il prerequisito della democrazia interna non deve essere stato rispettato alla virgola, se come constatiamo oggi il soggetto politico è rimasto fuori dalla porta». Non ammessi al due per mille malgrado la mediazione di un negoziatore professionista come l’avvocato Giuseppe Conte, disorientati dalle indagini in corso e dalla risultanza delle pressioni lobbistiche, i grillini vivono gli ultimi giorni di Sparta. Esplosa la guerra per bande, si fatica a capire chi sta con chi. Conte fa una sua partita, certo ormai che se Draghi va al Colle il riassetto di governo, perdurante l’unità nazionale, lo favorirà in una casella-chiave. La riprova della balcanizzazione violenta la dà la voce, fortissima, dell’imminente espulsione di una colonna storica dell’ala governista del M5S, quel Riccardo Fraccaro che di Conte era stato fedele alfiere, come ministro dei Rapporti con il Parlamento, nel Conte I.
L’ex ministro sarebbe a rischio procedimento disciplinare per aver incontrato alcuni giorni fa – «senza il mandato dei vertici», rimarcano fonti grilline – il leader della Lega Matteo Salvini, a Roma, per parlare di Quirinale. Un caso spinoso, quello che coinvolge il parlamentare trentino, dal momento che lo stesso Fraccaro fa parte del collegio dei probiviri 5 Stelle, composto anche da Jacopo Berti e dalla ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone. Dunque a decidere sul suo futuro all’interno del Movimento – se cartellino rosso, richiamo o sospensione – sarebbe chiamato, ironia della sorte, lo stesso Fraccaro. In un Movimento che è ormai una summa di conflitti di interesse, Davide Casaleggio va allo showdown. L’uomo-ombra del successo elettorale del 2018, colui che veniva omaggiato dal colosso cinese Huawei e stringeva riservatamente la mano allo spin doctor di Trump, Steve Bannon, ieri è apparso nelle vesti del povero diavolo. Ha sciorinato sul divorzio con il Movimento, l’abbandono dei grandi clienti e le sopraggiunte difficoltà economiche: «Siamo in difficoltà, dobbiamo ridimensionare gli spazi e cambiare ufficio», ha detto. Ed ha ribadito l’estraneità rispetto alle vicende politiche: «Nessun nostro cliente ha mai avuto dei favoritismi politici grazie a me. È un fatto incontestabile».
Dunque su Lottomatica, Moby, Philip Morris i parlamentari del gruppo Cinque Stelle hanno autonomamente preso decisioni atte a favorirli, è stata una loro spontanea volontà, una decisione squisitamente politica. Sta di fatto che non esistono, nel Parlamento italiano, un altro esempio di capo partito – “Fondatore” o “Garante” – impegnato nel fatturare alle aziende sulle quali, simultaneamente, i deputati si stanno esprimendo in merito ai provvedimenti legislativi di interesse. «Questo unicum del Movimento, un vulnus mai risolto, un “peccato originale” mai sanato, oggi è arrivato – come tutti i nodi, prima o poi – al pettine», chiosa un profondo conoscitore della storia del M5S, Nicola Biondo. Curreri va oltre: «C’è un nervo scoperto della nostra democrazia. Il conflitto di interessi è normato poco e male. Ed anche l’art. 49 della Costituzione mantiene del tutto sguarnito il vestito giuridico dei partiti, sarebbe urgente metterci mano ma ad oggi è mancata la volontà dei diretti interessati».
Il Movimento sbandiera tanto la democrazia interna quanto poi la tradisce. «Ricordate la vicenda della candidata che vinse le primarie a Genova per il Movimento, Marika Cassimatis? A Beppe Grillo non piaceva, ha annullato le primarie in un attimo e ha candidato chi voleva lui. Questa è la democrazia interna, lì dentro, e per questo tutti seguono le volontà di Grillo», riassume Salvatore Curreri. Ogni volta che si parla di democrazia diretta – insegna questo ennesimo caso Grillo – va posta una domanda: diretta da chi?
