Profughi trattati come merce di scambio, a Lesbo muore l’umanità dell’Ue

A Lesbo finisce l’Europa, alle frontiere del Mediterraneo si arresta l’umanità. Migliaia e migliaia di profughi diventano merce di scambio nell’indifferenza generale e nella strumentalizzazione per fini geopolitici. Forse possiamo dire che il “Coronavirus” è stato capace di indebolire ancora di più le “difese immunitarie” della solidarietà, della giustizia, della libertà, della fraternità, dell’uguaglianza. L’Europa della modernità, l’Europa dei diritti dove è andata a finire? E stentiamo a riconoscere l’Europa della civiltà latina e cristiana, di fronte alle terribili immagini di un bambino (l’ennesimo!) morto in spiaggia o nella disumana situazione dei campi profughi. Come al solito i profughi vengono trattati quale merce di scambio: i bombardamenti costringono a fuggire dalla propria terra, chi apre le frontiere li tratta – insisto – proprio come merce di scambio e la Grecia diventa una porta per un’Europa arroccata. Certo, per i regimi è facile operare: non hanno Parlamenti cui rispondere. Per le democrazie è difficile agire, messe sottosopra dalla crisi economica, dalle opinioni pubbliche interne sollecitate da nazionalismi e rigurgiti xenofobi, dalla paura del Coronavirus che è la marcia in più a spingere per minacciare la chiusura delle frontiere.

Eppure si potrebbe utilizzare uno spunto che è ci è stato offerto tre giorni fa da un’articolata analisi sul New York Times (International Edition) a proposito del Coronavirus. Ci sono due modalità per rispondere ad una “epidemia”, notava l’articolo. La prima modalità è quella dettata dal seguire la scienza medica di oggi, utilizzando le risorse sanitarie al meglio e le medicine nella maniera migliore e più efficace, mettendo in campo tutto quello che sappiamo in tema di igiene e prevenzione. E soprattutto senza panico e senza allarmismi. La seconda maniera è di tipo medievale: chiudiamo le frontiere esterne, isoliamo le aree interne di ogni singolo paese, fermiamo i commerci e gli scambi culturali, sociali, e di ogni tipo. D’istinto, molti la riterrebbero ancora una strada praticabile.

E l’analogia vale nel caso della nuova crisi migratoria cui stiamo assistendo, nella risposta comunque tardiva dell’Europa. Chiudiamo le frontiere, respingiamo i profughi o – peggio – disinteressiamoci di loro, preoccupati come siamo della nostra salute, dei lazzaretti interni che abbiamo costruito per mettere un argine alle paure che spuntano dietro l’angolo delle case, dietro l’altro che avanza per strada e desidera soltanto stringerci la mano. Per evitare il contagio evitiamo il più possibile il contatto fisico, ci dicono i medici citando i protocolli sanitari. Limitiamo i contatti, limitiamo il saluto. Non guardiamoci più negli occhi. Il virus si vincerebbe con l’isolamento. Dalla prassi sanitaria alla vita sociale il passaggio è breve: che ne va della nostra umanità? Gesù non avrebbe mai toccato un lebbroso? Il Buon Samaritano del racconto evangelico sarebbe passato oltre anche lui?

La donna «impura» non avrebbe mai potuto toccare Gesù? Sarebbe stata fermata da zelanti discepoli sotto forma di efficaci guardie del corpo? Eppure nei tempi difficili e oscuri l’umanità sa far emergere i talenti migliori e mostra tutte le sue capacità “umane”, appunto. I pionieri della medicina scoprono la penicillina e l’esistenza dei batteri; infermieri, volontari e un popolo di santi e di samaritani rimane vicina ad un’umanità sofferente e crea la cultura della gratuità. Senza di loro il nostro mondo sarebbe stato diverso, chiuso, disumano. Non credo proprio che il dovere, sacrosanto, di curare gli italiani ammalati di Coronavirus sia incompatibile con uno sguardo attento e pieno di compassione per chi, invece, muore lontano dai nostri occhi.

Che futuro avranno quei bambini e quelle bambine, quei giovani che un giorno usciranno dai campi profughi? Quale insegnamento avranno tratto? Cosa insegneranno a loro volta ai figli che avranno? E i politici: sanno ancora, o potranno imparare che governare non significa sfruttare le paure? Come sarà – dopo – il bilancio umano e sociale dei paesi in cui non si è tesa la mano agli altri? In qualche modo nelle vicende di questi giorni, in Europa abbiamo la dimostrazione che il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” non può funzionare, se non al prezzo di togliere un bene prezioso: la libertà. La libertà di scegliere di tendere la mano. La libertà di scegliere di fare del bene. La libertà di chiedere conto quali valori abbia chi è al governo ed assiste senza guardare o voltandosi dall’altra parte. Certo – si risponde – parlare è facile. Ma è ancora possibile sdegnarsi? Non si può tacere!

Stiamo toccando con mano realtà drammatiche: persone che fuggono da guerre volute altrove per finalità di potere e di dominio, guidate da potenti interessi economici e finanziari. E i politici dovrebbero fermare l’esodo delle persone. Le realtà sovranazionali come l’Europa hanno il compito preciso di lavorare insieme – i diversi Stati – per trovare soluzioni durature. Senza dimenticare che è la Storia scritta dagli europei negli ultimi duecento anni ad avere innescato la polveriera che sta saltando. È una guerra mondiale «a pezzi», come ripete Papa Francesco. E noi stiamo facendo il mondo «a pezzi»! Chi avrà la possibilità di rimettere insieme un «nuovo» ordine mondiale?

Quale ordine mondiale sarà veramente «nuovo» se fondato su esodi e disprezzo della dignità umana? Tutte le persone di buona volontà, oggi, hanno il dovere di alzare la voce e difendere la dignità umana dei profughi, dei bambini, delle donne, degli anziani, condannando la disumanità di questa politica o meglio, dell’assenza della politica. La “sorveglianza” delle frontiere, il “capitalismo della sorveglianza” dei riconoscimenti facciali, del Grande Fratello sottoforma di telecamere e invasione della vita privata per fini commerciali o di sicurezza, non funziona. Rende più disumana un’umanità che ha già il triste primato di riuscire ad uccidere con indifferenza i propri simili più deboli e indifesi.

Solo grandi gruppi di Stati che condividono con forza valori comuni – come l’Europa, appunto – possono agire efficacemente per realizzare l’enorme cambiamento a livello planetario, che sta diventando sempre più urgente. Si tratta di una grande impresa in cui il ruolo delle religioni e delle Chiese è cruciale, per il bene dei popoli europei e del mondo intero, per contrastare i nazionalismi e per costruire la pace. La cronaca tristissima di questi giorni ci obbliga a riflettere. Partiamo dall’Italia: chi vogliamo essere in questa Europa in cui siamo inseriti? Come è possibile conciliare l’esigenza di migliorare l’economia, la salute, l’educazione, in generale la qualità della vita sociale, con quella di integrare e accogliere il contributo di tanti nuovi europei? Come possiamo non chiudere gli occhi davanti a tragedie che si consumano vicino a noi?

In questi giorni mi trovo ad Ariccia, insieme ai cardinali e arcivescovi della Curia Romana, per gli Esercizi Spirituali. È il ritiro che noi sacerdoti compiamo regolarmente, per riflettere sulle attività, per ascoltare la Parola di Dio, per operare una revisione di vita. È un’occasione preziosa in Quaresima, in vista della Pasqua che è il centro della vita cristiana. Ed in questi giorni le notizie arrivano, e non possiamo essere indifferenti. E starcene a parte. Mi trovo sempre più spesso a pensare che la risposta alle guerre, alle miserie, alle devastazioni, alle difficoltà dei singoli e delle collettività – anche in tema sanitario! – è nel riscoprire quella «fratellanza umana universale» che papa Francesco non cessa di sottolineare. Riscoprire la dimensione dell’essere insieme. Siamo tutti partecipi dell’unica «casa comune». Tra poche settimane celebreremo la Passione di Gesù. Già da ora dobbiamo rivolgere il nostro sguardo a queste migliaia di bambini e bambine in fuga che sono messi in croce. Da piccoli.  Partiamo da qui per diventare più umani, più veri.