Il sostegno alla causa palestinese e i legami raffreddati con Hamas: Erdogan tra due fuochi

Erdoğan cerca di calibrare attentamente la sua posizione di fronte alla guerra che Hamās ha scatenato contro Israele il 7 ottobre, da una parte mantenendo il suo sostegno alla causa palestinese e dall’altra raffreddando i legami con Hamās per evitare nuovi attriti con Gerusalemme. La crisi di Gaza è infatti scoppiata in un momento in cui il presidente turco stava completando la normalizzazione delle relazioni con tutte le potenze regionali, compreso Israele, dopo anni di gelo.
Secondo diversi fonti ad Ankara, l’intelligence turca, subito dopo l’attacco terroristico di Hamās, avrebbe lanciato un segnale chiaro alla organizzazione fondamentalista facendo intendere che “i rapporti della Turchia con Israele pesano più di quelli che intrattiene con essa”.

La notizia rilevante molto presente in queste ore sui media turchi è proprio quella che riguarda i legami tra Turchia e Hamās. Secondo fonti autorevoli dei maggiori media turchi, il capo dell’ufficio politico di Hamās, Ismail Haniyeh, si trovava a Istanbul quando i suoi miliziani hanno fatto irruzione nelle città israeliane. Haniye sarebbe stato dunque, seppur gentilmente, invitato ad abbandonare subito la Turchia dopo che sui social media erano circolati video che mostravano lui e altri membri di Hamās prostrarsi in una “preghiera di gratitudine” mentre seguivano in televisione le notizie dell’incursione nelle città israeliane dei terroristi palestinesi. Ankara è stata infastidita anche dalle dichiarazioni che Saleh al-Arouri, il vice di Haniyeh, che quel giorno aveva rilasciato un’intervista ad Al Jazeera.

Arouri si vantava del fatto che Hamās aveva catturato un numero tale di soldati israeliani da poter costringere Israele a liberare tutti i prigionieri palestinesi dalle sue carceri. Il governo turco cercava di evitare di apparire come protettore di Hamās mentre veniva massacrata la popolazione israeliana. La scorsa settimana, in un’intervista alla Tv turca, Haberturk, Khaled Meshʿal, che gestisce tutti i rapporti internazionali di Hamās, in stretta cooperazione con la Jihad islamica e che raccogli fondi per essa, aveva lasciato intendere che il gruppo si aspettava un sostegno più forte e deciso da Ankara con il richiamo dell’ambasciatore israeliano e con la richiesta a Israele di porre fine ai bombardamenti su Gaza. Tuttavia, Ankara non considera irreversibile l’attuale raffreddamento dei rapporti con Hamās e a sua volta quest’ultima potrebbe non farne una questione dirimente nella speranza che la porta turca resti per loro aperta.

Fu dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011 che la leadership politica di Hamās dovette abbandonare la Siria per trasferirsi in Turchia e da allora Haniyeh ed altri dirigenti che vivono in esilio si sono divisi tra il Qatar e la Turchia. A prima vista, si potrebbe pensare che gli stretti rapporti che il governo Erdoğan intrattiene con l’organizzazione terroristica palestinese abbiano ormai messo quest’ultimo all’angolo, ma per l’Occidente, la Turchia rappresenta anche in questa crisi un partner prezioso proprio perché è in grado di dialogare anche con Hamās e questo oltretutto funge da parafulmine per il governo Erdoğan di fronte ad eventuali sanzioni. Gli appelli rivolti ad Ankara con i quali diversi paesi chiedono la mediazione per il rilascio degli ostaggi stranieri detenuti, forniscono al leader turco l’opportunità di svolgere il ruolo che sperava di rivestire. Ecco perché Erdoğan questa volta ha moderato il suo linguaggio nei confronti di Israele rispetto agli attacchi al vetriolo che ad esso aveva rivolto nelle crisi precedenti. Il leader turco pur non condannando esplicitamente il terribile attacco terroristico compiuto da Hamās, non ha comunque fornito alcun sostegno verbale all’organizzazione fondamentalista e ha fatto riferimento solo alla popolazione palestinese.

Non è un caso se ora i gruppi palestinesi, compreso Hamās, siano insoddisfatti della posizione turca e manifestino diffidenza nei confronti di Ankara. Erdoğan tiene molto a un suo ruolo di mediazione nel conflitto tra Israele e Hamas. Il presidente turco è abilissimo nello sfruttare a suo vantaggio ogni crisi che esplode nel suo vicinato e cerca dunque di trarne il massimo beneficio per accrescere il suo consenso interno e nella regione. Tiene molto ad essere accreditato come leader indiscusso che restituisce alla sua nazione il ruolo prestigioso che le spetterebbe sulla scena internazionale. L’immagine di una Turchia che si pone come attore e prezioso “facilitatore” nelle soluzioni delle crisi regionali è oltretutto fondamentale per instillare fiducia nei mercati, necessaria ad accrescere gli investimenti stranieri e dare così ossigeno alla traballante economia turca.

Antony Blinken ha saltato Ankara nei suoi recenti viaggi in Medio Oriente, si è recato ovunque, ma non in Turchia perché Washington ha segnalato che avrebbe accolto favorevolmente un suo ruolo nella crisi di Gaza, ma solo se prima avesse ratificato l’ingresso della Svezia nella Nato. Non è un caso che il presidente turco abbia subito firmato il protocollo di adesione di Stoccolma all’Alleanza Atlantica e lo abbia deferito al parlamento per il voto finale di ratifica. Questo appare come un successo di Biden nelle relazioni tra Turchia e Usa. Washington spinge, da tempo, Ankara affinché ponga fine alla crisi nei suoi rapporti con l’Occidente e torni a svolgere un ruolo più credibile e attivo nella pace in Medio Oriente e nel Caucaso.
Ci dobbiamo aspettare che, dopo la ratifica del Parlamento turco del protocollo di adesione della Svezia alla Nato, alcuni contratti con la Turchia siano sboccati dal Congresso americano, come quello della vendita dei 40 nuovi F-16 da tempo richiesti da Ankara.