Referendite, malattia senile della politica. Guzzetta: “Spesso è solo una bandiera”

La referendite acuta e cronica è la malattia senile della politica. Da tredici anni nessun referendum raggiunge più il quorum? Poco male. Cgil e Pd raccolgono le firme contro il Jobs Act (votato dal Pd) e contro l’autonomia differenziata (sostenuta dall’allora candidato segretario del Pd, Stefano Bonaccini). Ormai lo scopo del gioco è chiaro per tutti: farsi promotori di una battaglia militante, cavalcare le campagne referendarie nelle piazze, arrogarsi spazi televisivi a suon di diritto di tribuna. Certo, una volta i referendum erano una cosa seria. Dal 1974 al 1995, ad eccezione del referendum su caccia e pesticidi del 1990, il quorum è stato raggiunto in tutte le altre 8 consultazioni. Questa tendenza si è invertita a partire dal referendum del 1997. Delle 8 consultazioni effettuate, solo quella del 2011, sulla gestione pubblica dell’acqua, raggiunse il quorum, con un’affluenza del 54,8% degli aventi diritto. Ne abbiamo parlato con il costituzionalista dell’università Tor Vergata, Giovanni Guzzetta, ha promosso molti quesiti referendari negli ultimi vent’anni.

Lo strumento referendario è abusato, annacquato? La politica abdica alla sua funzione se demanda sempre ai referendum?
«Trattandosi di referendum abrogativi, la politica deve sentirsi chiamata in causa nel momento successivo, quando deve offrire opzioni alternative».

Però vanno a votarli sempre in pochi…
«I referendum non riescono a realizzare quasi mai il quorum, questo è il problema. Hanno perso gran parte del loro effetto legislativo e dunque vengono utilizzati come bandiera per segnalare un dissenso, indipendentemente dall’efficacia in sé dello strumento. E questo certamente è un uso che non corrisponde allo spirito dell’istituto che è finalizzato non a proclamare manifesti ma a realizzare modifiche effettive della legislazione».

Non si raggiunge più il quorum da 13 anni. Come mai?
«In parte dipende da fattori che non riguardano solo lo strumento referendario: l’astensionismo crescente, la distanza dei cittadini dalla politica colpisce anche i referendum. Consideriamo poi che non andare a votare per i referendum ha una doppia valenza: c’è chi non va perché è contrario al quesito, e punta così a farlo ‘fallire’, e c’è chi non va per astensione fisiologica. Perché deluso dalla politica, scettico sugli effetti che produrrebbe il suo voto. La sommatoria non permette più da lungo tempo di raggiungere il quorum».

Questa deriva, questo annacquamento della pratica referendaria è in contrapposizione con la bella storia dei referendum, quelli di ampio respiro…
«Sicuramente ci sono stati referendum che hanno avuto una valenza storica, una portata incisiva. E soprattutto erano più nello spirito dell’istituto, erano fatti per contrastare un indirizzo politico, lasciando poi al legislatore la responsabilità di trarne le conseguenze e modificare le leggi. In una fase storica si è fatto un uso intenso del referendum anche giustificato dall’inazione del legislatore e questo ha indebolito l’incisività dello strumento. L’istituto referendario è straordinario e dovrebbe essere utilizzato con parsimonia. Eccessi referendari, profluvi di quesiti ci sono stati in passato e hanno forse contribuito a produrre il disamoramento dei cittadini».

Oggi si punta alla polarizzazione referendaria, al presidio del dibattito pubblico. Chi promuove il referendum sul jobs act non promuove alcuna alternativa…
«Questo però è nelle cose: lo strumento del referendum viene promosso in opposizione a una legge, almeno nella sua origine. Poi è questione di merito politico se l’opposizione è meramente svolta a brandire una bandiera oppure ha dietro di sé una consistenza politica definita. Non si può dire in astratto. Sicuramente c’è un uso del referendum, vista la sua debolezza, che è ormai di bandiera».

Un uso strumentale…
«Un uso disallineato rispetto alla natura dell’istituto. Che deve trasformare le leggi, deve avere un effetto giuridico. Non può servire per comunicare una posizione politica, per fare attività militante».

Molti promotori del referendum sanno già che mancheranno il quorum, ma intanto si fanno sei mesi di campagna…
«Tutto legittimo, intendiamoci. Nessuno ex ante sa per certo di mancare il quorum, questo non lo possiamo dire. Sappiamo che raggiungerlo si è fatto difficile e non si può pensare che chi promuove le campagne referendarie non faccia i conti con la realtà».

Come può cambiare la legge sui referendum?
«Parlo da analista, non faccio politica. Dunque non sta a me dirlo. Ma ci sono situazioni in cui il referendum gode di un trattamento non allineato con quello di cui godono altri istituti. E’ talmente evidente che non si raggiunge più il quorum, che forse meriterebbe una riflessione».

Il voto digitale, lo vede?
«La tecnologia c’è, e ci consente di avere certezza dell’identità del votante. Ma la circostanza in cui si vota, la certezza che quella scelta sia fatta in un contesto non coartato, non svolto nella piena libertà, rimane. Per questo è importante votare dove ci sono tutte le garanzie del caso».

Non scambiamo i referendum per una petizione online, quindi. Non è Change.org…
«No, appunto. I referendum tornino a essere una cosa seria. Ad essere usati con parsimonia. Sono un atto di esercizio di un diritto politico per il quale la Costituzione impone e assicura segretezza e libertà della personalità».