Ridateci Tribuna politica, è diventata un’esigenza democratica

Negli anni ’60 e ’70, il dibattito politico in televisione era una pratica quasi sacrale. In Rai, nella storica “Tribuna politica”, si sedevano uno di fronte all’altro politici e giornalisti di orientamenti diversi. Enrico Berlinguer rispondeva alle domande di un giornalista del Secolo d’Italia, Almirante a quelle di un cronista di sinistra. Era una regola non scritta, ma osservata con rigore: il contraddittorio non era un optional, ma la sostanza stessa dell’evento. Nessuno veniva protetto dalle domande scomode, e chi saliva su quella tribuna doveva essere pronto a difendere, argomentare, spiegare. Il pubblico, a casa, aveva così l’opportunità di ascoltare punti di vista differenti, espressi da chi li sosteneva e da chi li metteva in discussione. Era un esercizio di democrazia.

Il cambiamento

Oggi, tutto questo è scomparso. Le conferenze stampa sono sempre più rarefatte e, quando avvengono, somigliano a monologhi blindati più che a confronti con la stampa. Le domande vengono filtrate, i giornalisti accreditati selezionati con cura, gli argomenti più spinosi evitati o elusi con formule prefabbricate. La prassi di rispondere in modo puntuale e diretto a una domanda impertinente è quasi del tutto tramontata. E così, la politica si è rifugiata nei social media. Su Facebook, Instagram, TikTok o X, i leader politici parlano direttamente al proprio pubblico, senza intermediazioni. È un palcoscenico perfetto: nessuno interrompe, nessuno incalza, nessuno mette in crisi la narrazione. Si risponde solo a chi conviene, si commenta solo ciò che è utile, si ignora il resto. L’informazione diventa così unilaterale, costruita ad arte per rafforzare la propria immagine, per fidelizzare l’elettorato, non certo per mettersi in discussione. Il video in diretta, dove un leader fissa il proprio telefonino e racconta la realtà secondo la sua verità, è il nuovo standard della comunicazione politica.

Le interviste sono autopromozione

In questo scenario, anche le interviste sono diventate strumenti di autopromozione più che di verifica democratica. Quando un politico accetta di essere intervistato, nella maggior parte dei casi sceglie il giornalista “amico”, quello affidabile, che non farà domande trabocchetto, che non userà toni troppo aggressivi, che lascerà spazio alla narrazione senza turbare troppo l’ospite. Non si tratta più di affrontare un confronto, ma di inscenare una rappresentazione. Il giornalista diventa un complice, e l’intervista un copione. Eppure, la domanda di assistere ad un confronto vero è ancora forte- Qualunque emittente televisiva — pubblica o privata — sarebbe pronta a riaprire quello spazio. Alcuni tentativi, negli anni, sono stati fatti, ma con scarsi risultati. Il problema è a monte: manca la volontà politica. Nessun leader, oggi, vuole davvero mettersi in gioco. Nessuno accetta di essere intervistato da chi potrebbe metterlo in difficoltà. Nessuno è disposto a rinunciare al controllo assoluto della propria immagine. In un’epoca in cui la comunicazione è strategia, ogni parola è misurata, ogni apparizione calcolata. L’imprevisto è un rischio troppo grande.

Solo bolle informative

Così, il pubblico resta prigioniero di una comunicazione politica sempre più chiusa, autoreferenziale, impermeabile. Non ci sono più arene pubbliche, ma bolle informative. Non ci sono più domande, ma dichiarazioni. Non c’è più confronto, ma propaganda. Ridare vita a “Tribuna politica” — o a qualcosa che ne riprenda davvero lo spirito — significherebbe ristabilire un principio fondamentale della democrazia: chi detiene il potere deve rispondere pubblicamente delle proprie scelte, senza filtri, senza privilegi, senza scorciatoie. Significherebbe restituire centralità al giornalismo come strumento di verifica e non di compiacenza. Significherebbe, soprattutto, considerare i cittadini come soggetti maturi, capaci di assistere a un confronto vero, anche duro, anche conflittuale, senza bisogno di semplificazioni da social. Ma perché ciò avvenga, serve coraggio. Serve una classe politica che accetti di non essere sempre al centro della scena, ma di partecipare a un dibattito. Serve un sistema dell’informazione che torni a rivendicare il proprio ruolo critico. Serve un’opinione pubblica che non si accontenti dei monologhi, ma pretenda risposte.

Ridateci Tribuna politica!

Oggi, sarebbe possibile replicare un format simile? I grandi network televisivi, pubblici e privati, sarebbero pronti a riproporlo. Alcuni ci hanno anche provato. Ma il nodo non è la disponibilità dei media: è la volontà dei politici. Nessun leader attuale, o quasi, accetterebbe di esporsi a un vero contraddittorio. Quando la politica parla solo a sé stessa o ai propri follower, il resto della società si sente escluso. E quando il giornalismo viene ridotto a un ruolo decorativo, la sua funzione di controllo e critica del potere si svuota. Oggi, più che mai, c’è bisogno di tornare a praticare il confronto. Di ricostruire spazi pubblici in cui la parola non sia solo monologo, ma anche risposta. Dove le domande contino quanto le risposte. Dove il potere si ricordi che, in democrazia, parlare non basta: bisogna anche ascoltare, e soprattutto rispondere.