Probabilmente la battuta su come si possa governare un Paese con più di 250 qualità di formaggi fu inventata da News Week, mentre l’altra è certa: «Signor generale, lei non può accettare la proposta di governare la Francia senza prima fucilare tutti gli imbecilli». Si narra che Charles de Gaulle riflettesse a lungo prima di scartarla come eccessiva: «Vaste programme», disse. E passò a progetti più solidi. Ma la sua idea non era esattamente quella di essere il “Sindaco di Francia”, come oggi propone Matteo Renzi per se stesso e per l’Italia. Ma l’argomento, proprio a causa della crisi della IV Repubblica francese che portò al presidenzialismo di Charles de Gaulle, cominciò a serpeggiare da allora, ogni volta che si parla di una possibile Costituzione presidenzialista in cui o il Presidente o il capo del governo siano eletti direttamente dal popolo, senza passare attraverso il metabolismo misterioso del Parlamento.
La crisi francese del 1958 si abbatté di riflesso anche sull’Italia come una bomba atomica. I giovani di sinistra come me si affrettarono a gridare al colpo di Stato fascista, ignorando un bel po’ quello che era accaduto prima. L’ultimo primo ministro della Quarta Repubblica (del tutto identica alla Terza) si chiamava Pflimlin e il suono di quel nome, un po’ ridicolo, spingeva mio padre a provocarmi sfidando la mia avversione a De Gaulle, che invece piaceva a tutta quell’Italia conservatrice che in un modo o nell’altro avrebbe gradito di nuovo il ritorno della figura dell’hombre fuerte, qualcuno come Francesco Crispi, se non proprio un duce democristiano, da votare per plebiscito. Il democristiano Amintore Fanfani (definito con Aldo Moro un “cavallo di razza”) aretino di sinistra ma anche ex fascista “sociale” nutriva aperte ambizioni golliste e allo stesso tempo detestava de Gaulle.
L’ANOMALIA ITALIANA
Nell’Italia della decade 1955- 1965 era vigile e forte la religione del parlamentarismo. Guai, allora, ad offendere le istituzioni parlamentari e i loro abitanti. Sul Parlamento era stato realizzato il grande compromesso che aveva posto fine alle minacce di una impossibile guerra civile e il Pci aveva rinunciato da tempo al controllo delle armi della Resistenza. Il patto parlamentare era rigido e solidale fra centro e sinistra e la sola idea di avere a che fare con un potere concentrato su una sola persona scatenava le ire non soltanto di comunisti e socialisti, ma degli stessi democristiani.
Il mondo democristiano era del resto una confederazione di correnti e poteri di destra e di sinistra che si misuravano con il bilancino dei codici che stabilivano il turn over dei governi con tutte le loro clientele, erroneamente percepito come una fragilità. L’errore era dovuto al fatto che la Dc, con i suoi primi alleati Psdi e Pri cui si aggiunse negli anni Sessanta il Psi di Pietro Nenni, doveva accontentare a turno i suoi capicorrente e dunque provocava improvvisi cambi di governo.
Ciò costituiva la perfetta normalità e non l’anomalia. Ma esternamente era percepito come un’anomalia: «Gli italiani cambiano governo continuamente, le loro istituzioni sono inconsistenti». Era vero il contrario: poiché il potere democristiano era coeso e condiviso, la continua redistribuzione delle carte e delle cariche garantiva un felice raccolto a tutte le componenti e poi anche a quelle dei loro alleati. Gli accordi con il Partito comunista erano estremamente solidi, l’arco costituzionale provvedeva a mantenere in quarantena perenne soltanto i neofascisti del Msi che costituivano la casta inferiore degli intoccabili.
Quando nel 1960 Fernando Tambroni, esponente della sinistra democristiana, fu imposto a Palazzo Chigi dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, anche lui della sinistra, l’organismo multiplo e sovrano del partito democristiano si ribellò al tentativo “gollista” del Capo dello Stato di mantenere al potere un suo presidente del Consiglio, rifiutò di votare la fiducia al governo del Presidente. E Tambroni compì la spregiudicata follia di accettare i voti determinanti dei neofascisti provocando a Genova la rivolta dei portuali che si este a macchia d’olio nel terribile luglio del 1960 con moltissimi morti e feriti con la situazione politica totalmente sfuggita di mano. Tambroni fu costretto a dimettersi e l’episodio gollista italiano finì in un bagno di sangue, trovando impreparato persino il Pci di Palmiro Togliatti che si trovò di fronte agli automatismi reattivi della forza organizzativa del partito. Ciò ebbe delle gravi conseguenze sulla latente voglia italiana di importare una forma di gollismo senza de Gaulle.
Gli Stati Uniti e gli altri alleati della Nato sostennero che l’Italia non era in grado di reggere un eventuale colpo di mano di sinistra e imposero la formazione di una brigata corazzata dell’Arma dei Carabinieri affidata al generale De Lorenzo che si alternava al comando sia dell’Arma che del servizio segreto, con la conseguenza di un altro, temuto o immaginario o ipotetico, colpo di Stato nel 1964 quando sarebbe stato testato il famoso “Piano Solo” con cui arrestare tutti i leader della sinistra e del sindacato, cosa mai dimostrata e che secondo la leggenda provocò uno scontro violentissimo fra il Presidente della Repubblica Antonio Segni e il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, con un finale drammatico: Segni fu colpito da ictus e dopo una lunga degenza morì. I fatti di quell’estate furono poi ricostruiti, ma anche contestati, da Lino Jannuzzi e Eugenio Scalfari sull’Espresso nel 1967, sicché quando i due giornalisti furono condannati in primo grado, il segretario del partito socialista Giacomo Mancini li mise in salvo facendo eleggere Scalfari a Milano per la Camera e Jannuzzi al Senato a Sapri. Su quella vicenda pesò poi la questione degli “omissis” sui documenti citati dall’inchiesta giornalistica, imposti da Aldo Moro, che poi si rivelarono del tutto innocui.
REFERENDUM IN ALGERIA
Ma intanto, si può dire che la crisi francese del 1958 aveva prodotto in Italia una forte voglia di presidenzialismo, chiesto a viva voce da persone come Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza e poi incriminato per tentativo di colpo di Stato. Non tutto quel che accadde in Italia dalla presa del potere di De Gaulle in poi fu addebitabile all’influenza della vicina Francia, ma la tentazione era palpabile. Da noi seguitavano a succedersi le crisi di governo, mentre la Francia appariva stabile e coesa. Inoltre, De Gaulle non esitò a tradire il suo stesso elettorato colonialista concedendo il referendum sull’indipendenza dell’Algeria, vinto dai patrioti algerini sul suolo francese. E quando l’Oas, l’organizzazione terroristica militare degli oltranzisti di destra, cominciò a colpire sul territorio tripolitano, il generale de Gaulle, seguendo una tradizione francese nata con Robespierre, proseguita con Napoleone e mai abolita (chi ricorda il film Nikita sa di che cosa si parla) istituì gruppi di assassini di Stato, i barbouzes, che procedettero all’eliminazione fisica di tutti coloro che non erano stati arrestati e messi in galera.
La Francia era un paese incomparabilmente diverso dall’Italia, malgrado il persistente mito della cuginanza. E il suo comportamento ambiguo e diviso durante la seconda guerra mondiale era stato a malapena riscattato dalla resistenza di De Gaulle e dei gollisti ai tedeschi, quando i comunisti ancora non sapevano decidersi, ma in realtà americani e inglesi non avevano alcuna simpatia per Charles De Gaulle neppure durante il suo periodo d’esilio a Londra quando pretendeva di avere pari dignità e al quale sia Roosevelt che Churchill avevano inflitto, d’accordo con Josef Stalin, l’offensiva esclusione dagli accordi di Yalta. Eisenhower detestava il generale francese e così lo detestava John Kennedy. Inoltre il generale non voleva un’Europa che includesse gli inglesi, ma aperta fino agli Urali, cioè con una relazione speciale con i sovietici. Mise in crisi la Cia quando si recò a Mosca e pronunciò un impeccabile discorso in russo, sorprendendo tutti perché non si sapeva che lo sapesse parlare. Infatti non parlava russo, ma aveva imparato a memoria un discorso in russo. La Francia aveva, e ancora ha, un impero. La Francia aveva e ancora ha colonie (la Nuova Caledonia) e Territori d’oltre mare in America, oltre a un’armata che risiede e combatte le sue silenziose guerre nell’Africa Occidentale francofona dove protegge o depone despoti.
L’ENI DI ENRICO MATTEI
L’Italia del dopoguerra era un Paese totalmente piegato al filoamericanismo di facciata, con una fortissima componente filoaraba necessaria specialmente all’Eni per la sua politica estera in conflitto con quella francese. Secondo molte ricostruzioni il creatore e presidente dell’Eni, Enrico Mattei, fu assassinato dai servizi francesi che sabotarono il suo aereo. L’Eni del resto sosteneva apertamente l’indipendenza delle colonie francesi ed era considerato a Parigi un’entità nemica. Charles de Gaulle era un uomo altissimo, ufficiale studioso della guerra meccanizzata ed era l’uomo che aveva mantenuto la Francia unita dal suo rifugio a Londra (accolto e odiato da Winston Churchill, mentre la patria battuta ignominiosamente dai tedeschi, inferiori per numero e armamenti, marciavano sotto l’Arco di Trionfo a Parigi. Il brutto era che i comunisti francesi, mentre era in corso l’alleanza fra Hitler e Stalin fino al giugno del 1941, riempivano la capitale di manifesti in cui scrivevano “Bravo, camarade allemand” che combatti insieme a noi contro l’imperialismo inglese e il capitalismo borghese. Jacques Duclos, segretario, andava in ufficio nell’ambasciata sovietica scortato dalle SS e la flotta francese, passata ai tedeschi, era stata attaccata e affondata dagli inglesi. Il generale era l’unico vice della Resistenza ed era una voce militare e di destra. Poi Hitler rovesciò il fronte invadendo l’Urss e le cose cambiarono, ma la memoria francese registrò che il giovane genarle era l’unico degno di rappresentare la nazione.
L’Italia nel dopoguerra non ha dovuto combattere guerre di decolonizzazione e questa è una fortuna che non valutiamo mai abbastanza. Ma la Francia non aveva smesso di essere in guerra in tutte le sue colonie, aveva concesso l’indipendenza a Marocco e Tunisia, mentre l’Algeri dei pieds noir (i bianchi francesi) erano pronti alla secessione e avevano tentato un colpo di Stato. In più, la Francia aveva perso l’Indocina a Dien Bien Phu nel 1954 contro l’esercito nordvietnamita che non era affatto composto da guerriglieri, ma era uno dei più forti eserciti, dotato di artiglieria mobile pesante, sostenuto da Urss e Cina. Poi, aveva subito il tracollo insieme agli inglesi nella crisi di Suez del 1956, quando Nikita Krusciov, con il tacito consenso americano, minacciò; di bombardare Londra e Parigi se l’Egitto non fosse stato sgombrato dalle truppe d’invasione anglofrancesi, cui si erano aggiunti anche gli israeliani. Insomma, era un altro mondo, duro e armato, e la Quarta Repubblica era stata una barzelletta democratica, con continui cambi di governo fra centristi, Sfio e comunisti che erano sempre di pari forza.
De Gaulle fu chiamato dai generali ribelli di Algeri, alteri e magri nelle loro uniformi coloniali, sprezzanti. Io ero allora un liceale molto radicale e molto vicino al Fln algerino, quello splendidamente ricordato nella Battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo. De Gaulle si suicidò un po’ come il primo Renzi con un referendum su stesso, quando sfidò l’onda lunga del “joli mai” francese, la rivoluzione delle barricate di maggio, e chiamò il popolo a decider se volevano un paese governato dalle nuove forze della rivoluzione estetizzante o se preferissero lui, “mon general”.
E i francesi lo rimandarono a casa, la sua di Colombey les Deux Églises, dove erano venuti a supplicarlo di prendere il potere e dove aveva rinunciato alla fucilazione di massa di tutti gli imbecilli, perché sarebbe stato davvero un programma troppo vasto. E scrisse le proprie memorie finché una decorosa morte lo colse, già imbalsamato nel mito e nel nome dell’aeroporto più bello di Parigi.
