Se n’è andato Flavio Bucci. Era se stesso, il suo profilo, il disegno del suo volto, la piega amara della sua bocca. Bucci, era nato nel 1947 a Torino, ed ha trascorso l’ultimo scorcio della sua vita a Passoscuro, sul litorale romano, nella quasi dimenticanza di sé e il mondo di lui e della sua storia. L’esordio cinematografico nel 1971 con Elio Petri, tra gli interpreti di La classe operaia va in paradiso, poi, nel 1973, protagonista di La proprietà non è più un furto, sempre Petri. Ma c’è stato anche il teatro nel suo palmarès, tra le sue prove migliori Flavio va ricordato sotto la regia di Mario Missiroli ne I giganti della montagna.
Il volto di Bucci ha solcato la memoria dello strapaese televisivo, per molti infatti, sebbene ormai adulti, egli è tutt’uno con la moto di Antonio Ligabue, non Luciano, il cantante, semmai il pittore folle e visionario della Bassa emiliana, il naif, il Doganiere Rousseau italiano, al punto da farne quasi la maschera, incarnarsi nella postura tra dinoccolato e grifagno dell’artista scoperto dal pittore Marino Mazzacurati con la benezione di Zavattini. Così una vita fa, in un tempo ormai non irricevibile, se non la fascinazione dei racconti trascorsi, quando i flash, i rollini, gli scatti del successo, della fama sembravano sorridergli all’infinito, accompagnarlo perfino in strada, tra gli applausi, gli autografi.
Già, Flavio Bucci è stato idolo televisivo, è stato appunto per definizione Ligabue, lo è stato perfino nell’ammirazione che si riserva ai volti particolari, bizzarri, caratterizzati espressionisticamente, «…guarda, guarda chi c’è, guarda lì, vedi, vedi Ligabue?», proprio così dicevano i genitori ai bambini incontrandolo nei giorni delle compere al Corso, lì per caso, o magari scorgendolo vittorioso sulla copertina della Settimana enigmistica in anni ancora analogici, e intanto Flavio Bucci-Ligabue, garbato, faceva cenno con la mano, salutava come una sorta di elfo espressionista dello spettacolo, venuto fuori dal bestiario della bizzarra bontà televisiva degli anni Settanta. Bucci, il profilo carenato, l’incarnato olivastro, le occhiaie calamarate, sempre lì sulla moto a bruciare idealmente, ostinatamente la Bassa del fulgore pubblico. Eppure, anni dopo, assai più prossimi a noi, pensandoci bene, scartabellando tra le fotobuste del cinema, subito dopo averlo scorto con la tunica e gli scapolari del prete ribelle Don Bastiano, brigante eretico, nell’epopea del Marchese del Grillo, Flavio Bucci è stato anche uno straordinario, immenso, spettrale, Franco Evangelisti, una sorta di Dottor Caligari del sottogoverno democristiano capitolino, gli occhi iniettati di sarcasmo e scetticismo alla destra di Giulio Andreotti, così nel film di Sorrentino, Il divo, sebbene privo della conventuale pinguedine democristiana da refettorio già visto in Todo modo, propria del braccio armato tra le scartoffie di Andreotti.
Anche lì Flavio era davvero perfetto, maschera mortuaria di un potere tra clientelismo, ippodromi e Curia vaticana, perfetto anche da cadavere, composto nella bara, nella scena che annuncia il cupio dissolvi di un’era politica, magnifico perfino da Evangelisti deceduto, immobile nella sua camera mortuaria, Flavio, perfetto, un maestro di recitazione, anche nell’interpretare la morte.
Flavio Bucci è stato anche protagonista della più straordinaria stagione umana che Trastevere abbia mai vissuto, che non è certo identificabile con la cartapesta di Adriano Celentano nei panni di “Er più”, di Lando Fiorini con il suo “Din Don” o magari di Gabriella Ferri che canta “Mazzabubù… Quante corna stanno quaggiù?”, no, senza nulla togliere a quest’ultima, testaccina.
Semmai la Trastevere dove, in vicolo del Moro, abitava Gian Maria Volonté, il comunista “militante”, nella cui casa brillava una tela di Schifano con i maoisti di “Servire il Popolo” a innalzare le loro bandiere rosse. La stessa Trastevere che ha conosciuto i passi di Pierre Clémenti e di Tina Aumont, di Lou Castel, tra piazza San Calisto e vicolo di Santa Margherita; e ancora un Helmut Berger che brandisce le sedie strappate ai tavolini del bar “Di Marzio” in piazza Santa Maria in Trastevere, lo stesso bar dove dimorava Marco, il molosso di Valerio Zurlini, cui Rafael Alberti dedicò una poesia, che ancora adesso spicca sulle pareti del locale. Di queste ormai povere cose con Flavio Bucci ci siamo ritrovati a sproloquiare, sarà stato più di vent’anni fa, un incontro casuale, al bar “della Pace”, altro luogo paradigma di una Roma che ormai non esiste più. Lo rivediamo, Flavio, stravaccato come statua parlante, tra Pasquino e Marforio, accanto agli stipiti dell’ingresso, gli stiamo seduti accanto, e lui narra di un’età magica cittadina, quando ancora essere attori mostrava uno sfavillio umano rionale e perfino politico che andava assai oltre la piccina soddisfazione della fama, degli autografi, un tempo anteriore all’avvento d’ogni possibile selfie.
Poi, anni fa, abbiamo scoperto che Flavio Bucci viveva in una casa famiglia, perso, direbbe Pasolini, “nell’oro della pace di un’interminabile domenica”, un racconto che chiamava amarezza per lui, per la sua storia, e ancora per il tempo che lo mostrava pubblico eroe, prim’attore, protagonista, il nome in apertura di manifesto, Bucci, già Ligabue sul Primo Canale. Poi, sempre lui, sebbene in ruoli di servizio, secondari, le cose che si fanno, meglio, che “vanno fatte per campare”, non più il Flavio-Ligabue-Don Bastiano, non più il suo profilo carenato in sella alla motocicletta che brucia i filari della Bassa, piuttosto il Flavio protagonista di un tempo eroico, di un tempo e di una città svaniti, pellicole come Lucignolo di Massimo Ceccherini, 1999, dove Bucci impersona il padre, avvocato accusatore, del protagonista o ancora La grande rabbia di Claudio Fragasso, 2016.
Non si dica ipocritamente, adesso, pensando a questi ultimi suoi disgraziati anni, che certe frasi non andrebbero mai pronunciate, ossia che «… la vita è una ed è tua, puoi farci ciò che vuoi, guadagnavo anche due milioni al giorno: ho speso tutto in donne, manco tanto, che me la davano gratis, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai, mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, avrò bruciato 7 miliardi». Anche nella “dissipatio” brilla la grandezza. D’altronde, ognuno è responsabile del proprio male, del proprio abbandono, del proprio precipizio, e non si faccia, pensando a Bucci che raggiunge infine il paradiso degli incorreggibili, dei “chiodi storti”, come chi, consegnando una moneta all’accattone, precisa, pronuncia un “… mi raccomando, non se li beva, eh?”.
Merita rispetto il destino che Flavio ha donato a se stesso, al proprio precipizio, all’avere voluto affrontare rovinosamente la propria sconfitta, fosse anche per fragilità, o magari per semplice vizio assurdo, o piuttosto perché questa vita, questa Roma, il mondo della televisione, del cinema e del teatro, per come si è infine travisato nella sua infingardaggine, potrebbe, perché no, suscitare ribrezzo in chi è stato Don Bastiano, il brigante ribelle. Ecco, forse in Flavio che dona il rigor mortis di Evangelisti al film di Sorrentino, nel suo volto terreo, nel circonflesso dei suoi occhi segnati dalle rughe, le cornee immerse nel martirio dell’alcol e della cirrosi, c’è la più straordinaria metafora di un tempo finito per consegnarci all’ordinaria miseria del dopo che non aveva più attenzione per un maestro com’era lui.
