Roberto Maroni e la persecuzione giudiziaria per un sms storpiato dalla Procura

Ora che Bobo non c’è più, Bobo il sognatore che amava suonare e cantare e gridare forza Milan, il grande senso di colpa collettiva lo farà ricordare solo nelle sue vesti istituzionali, ministro dell’interno e del welfare, presidente della Regione Lombardia, e uomo politico al vertice della Lega. Difficile che qualcuno, l’ipocrisia della politica o il cinismo del mondo giudiziario, accenda la luce su colui che fu Roberto Maroni l’imputato e poi il condannato, in primo e secondo grado. E infine assolto in cassazione, perché il fatto, il fattaccio non sussiste, dopo sei anni di tormenti e vergogna mediatica, con i pm che frugavano e alludevano tra i suoi sentimenti e le sue amicizie. Bobo era un po’ morto anche in quei giorni. E aveva rinunciato a ricandidarsi al vertice della Regione Lombardia, indicando il suo successore, un altro avvocato della sua stessa Varese, Attilio Fontana.

Bobo era un uomo buono. Ma il condannato in due gradi di giudizio, pur ancora presunto, e poi definitivo innocente, non le aveva mandate a dire, a certa magistratura, e agli uomini della Procura milanese. Aveva tirato fuori gli artigli. In un’intervista al Giornale dopo l’assoluzione aveva scandito con precisione che cosa intendesse per “il rito ambrosiano applicato dalla magistratura: sono i cecchini della politica, gli alfieri di un sistema che non punta all’accertamento della verità ma a un processo sommario e violento che porta alla inevitabile distruzione della dignità e della reputazione della persona coinvolta”. Non parlava solo di sé. Avvocato e garantista, aveva denunciato l’uso politico del circo mediatico-giudiziario quando era stato arrestato il Presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi, suo amico, proprio alla vigilia delle elezioni alla Regione Lombardia del 2013, alla cui Presidenza Maroni era candidato. E poi sarà eletto, nonostante il momento difficile, dopo le dimissioni di Roberto Formigoni.

Perché non prima o non dopo, si era chiesto? Perché questo arresto e questa sottolineatura a titoli cubitali della nostra amicizia proprio a ridosso delle elezioni? Ancora non sapeva che proprio dalle carte di Finmeccanica nasceranno le inchieste che lo riguarderanno e che tanta sofferenza gli porteranno per sei anni fondamentali della sua vita. Fino alla rinuncia alla riconferma al vertice della Regione, poi la speranza di diventare sindaco di Varese e poi un’altra rinuncia, dolorosa, dovuta alla malattia. Un filo sottile tra diverse malattie, quelle che ti manda la sorte e quelle uscite dalla malizia colpevole di qualche toga. E magari collegate. La storia giudiziaria di Roberto Maroni è un esempio tipico del trentennale “rito ambrosiano”. Fondata sul nulla di qualche intercettazione, in questo caso un sms, e poi ipotesi, congetture di servitori dello Stato in divisa o in toga e la complicità dei soliti piccoli laudatores travestiti da giornalisti. E’ bene raccontarla questa storia, anche per la triste fine del protagonista, prima condannato, poi assolto e poi malato, che ricorda, pur in situazione diversa, quella di Enzo Tortora. Ometteremo solo i nomi delle due collaboratrici dell’ex ministro, trascinate nelle vicende giudiziarie non senza qualche allusione a rapporti sentimentali di una delle due, che la magistratura non ha risparmiato e che erano del tutto inutili e magari campate in aria. Ma è bene si sappia come vengono costruite certe inchieste, e l’uso politico che finiscono per avere.

Due diverse erano le vicende che il pm milanese Eugenio Fusco aveva ritenuto configurassero reati. La prima riguardava una presunta “turbativa d’asta”, per cui Maroni era stato condannato in appello a un anno di carcere per aver indotto i dirigenti di “Eupolis”, società regionale lombarda di ricerca e statistica, a stipulare un contratto di consulenza da 29.500 euro l’anno a un’ex collaboratrice al ministero dell’interno. Sarà l’imputazione che arriverà fino alla cassazione, la quale annullerà senza rinvio la sentenza d’appello, sostenendo che non esisteva nessuna turbativa in quanto non era mai esistita nessuna asta, ma “una mera comparazione di profili professionali”. Il fatto non sussiste. Se quella prima accusa aveva da subito mostrato fragilità, la seconda presenta addirittura aspetti che hanno del grottesco. Siamo nel 2014 e la Regione Lombardia sta organizzando un viaggio istituzionale a Tokyo. La squadra è composta da numerose persone. Ma una sola attrae l’attenzione del pubblico ministero. L’incriminazione di concussione, e poi di induzione indebita, nasce da un messaggino telefonico, un innocente sms che diventerà una sorta di corpo di reato, che il 27 giugno Giacomo Ciriello, capo dello staff di Maroni, manda a Christian Malangoni, direttore generale di Expo per sollecitare a Beppe Sala, allora amministratore delegato della società, l’inserimento nella delegazione anche di un’altra dirigente, che era già stata collaboratrice del presidente al ministero dell’interno. Una banalità. Che infatti non presenta alcuna irregolarità. Ma c’è un ma. I costi.

E c’è anche un falso. Che metterà in grande imbarazzo gli uomini della Procura presieduta da Edmondo Bruti Liberati. Il messaggio originale, come è stato dimostrato al processo, diceva: “Christian il Pres ci tiene acchè la delegazione per Tokyo comprenda anche la società Expo attraverso la dottoressa…Puoi parlarne con Sala o autorizzarne la missione?”. Nelle carte del pubblico ministero Fusco però viene omessa l’ultima frase, quella in cui il punto interrogativo è lì a escludere qualsiasi forma di pressione, o addirittura di intimidazione, tanto da poter far configurare il reato di concussione o induzione. Ma addirittura nel testo falsificato viene aggiunta un’altra frase: “… voleva che la… viaggiasse insieme alla delegazione, quindi nella stessa classe di volo e nella stessa classe di albergo”. Volo di lusso, dunque, e hotel di lusso. Non per una casuale accompagnatrice, ma per una dirigente in rappresentanza di Expo, il futuro evento che il Presidente della Regione Lombardia avrebbe potuto illustrare con orgoglio ai rappresentanti del governo giapponese. Spesa totale, settemila euro.

Chi ha inserito nel messaggio quella parte falsa? Fatto sta che si dovrà arrivare al processo di primo grado perché tutta la vicenda venga gettata nel cestino. Anche perché alla fine lo stesso Maroni rinunciò al viaggio e la Regione Lombardia sarà rappresentata a Tokyo da Mario Mantovani, il vicepresidente che finirà a sua volta indagato, e addirittura arrestato nel 2015 su richiesta della stessa Procura con tre imputazioni gravissime. E poi assolto in appello da ogni accusa. Il “rito ambrosiano” che pareva non arrestarsi mai. Un ultimo ricordo di Bobo il sognatore ma anche l’avvocato garantista lo dedichiamo al ministro Nordio, di cui sappiamo condividere una recente auspicio di Roberto Maroni. Vorrei “che la politica riprendesse il controllo della situazione, facesse quelle poche riforme che sono indispensabili, dalla separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale fino alla responsabilità civile dei magistrati, non solo in caso di dolo ma anche di colpa grave e inescusabile”. L’avvio di queste riforme, da parte del governo e del Parlamento, sarebbe un bel modo di ricordare sia Bobo che l’avvocato Maroni.