Salva Milano, quel decreto morto che può rivivere (ma non a Roma)

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Dietro quel Slava Milano – tecnicamente “Disposizioni di interpretazione autentica in materia urbanistica ed edilizia” – c’erano questioni reali che continuano a pesare sul futuro edilizio non solo di Milano, ma di tutte le città italiane. Problemi che richiedono – e ancora posso avere -risposte concrete.

Cosa prevedeva il Salva Milano: quattro punti chiave

Prima di guardare avanti, vale la pena ricordare cosa il decreto intendeva risolvere attraverso l’interpretazione realistica di norme, alcune risalenti al 1942.

La semplificazione dei piani attuativi

Il provvedimento stabiliva che per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato e altezze superiori a 25 metri, l’approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non sarebbe stata obbligatoria se gli interventi ricadevano in ambiti edificati e urbanizzati.

L’estensione del concetto di ristrutturazione edilizia

La norma prevedeva un’interpretazione retroattiva, a partire dal 22 giugno 2013, che includeva nella ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione con sagoma diversa dall’originale, permettendo di utilizzare la SCIA anziché il più complesso permesso di costruire.

La retroattività degli effetti

Gli interventi realizzati o assentiti fino all’entrata in vigore della disciplina di riordino sarebbero stati considerati conformi alla disciplina urbanistica, di fatto sanando situazioni pregresse contestate dalla magistratura.

L’applicazione nazionale

Benché nato dalle vicende milanesi, il provvedimento avrebbe avuto effetti su tutto il territorio italiano, uniformando prassi già diffuse in molti comuni.

Le alternative possibili: governare la crisi, senza Roma

Con il tramonto del Salva Milano, la strada per affrontare questi temi passa necessariamente attraverso soluzioni territoriali. La via tra una soluzione condonistica e un rigoroso accertamento delle condizioni di urbanizzazione è stretta, ma non deve passare unicamente per una norma di interpretazione nazionale. Il Comune di Milano ha già iniziato a muoversi in questa direzione. Con la delibera n. 552 del 7 maggio 2025, la Giunta ha approvato nuove linee di indirizzo che stabiliscono l’obbligo di piano attuativo per interventi che superano i 25 metri di altezza, privilegiando la conferenza dei servizi sincrona come strumento per accelerare le procedure. Parallelamente, l’urbanistica del presente privilegia vettori negoziali capaci di assolvere a una funzione integrativa di previsioni pianificatorie, attraverso innovative tipologie di accordi ad oggetto urbanistico che non costituiscono un appesantimento burocratico. Gli strumenti esistono: accordi di programma, permessi di costruire convenzionati, partenariati pubblico-privati regolati dall’articolo 11 della legge 241/1990.

Il dialogo necessario con la magistratura

Un aspetto cruciale è il rapporto con la Procura. Il timore di essere coinvolti nelle vicende giudiziarie aveva portato 140 funzionari comunali a chiedere il trasferimento, con un crollo del 50% delle pratiche edilizie. Serve un confronto costruttivo che chiarisca i confini interpretativi delle norme, senza attendere interventi legislativi nazionali. Un dialogo franco sui criteri di valutazione degli interventi edilizi, magari attraverso protocolli d’intesa o linee guida condivise, potrebbe sbloccare la situazione senza bisogno di sanatorie.

Le delibere comunali come strumento di governo

Le linee di indirizzo approvate dal Comune impongono paletti rigidi sull’obbligatorietà del piano attuativo, evidenziando il ruolo dell’amministrazione nel processo decisionale per la rigenerazione urbana. Questo approccio, offre certezza giuridica agli operatori. Le delibere possono disciplinare anche la monetizzazione degli oneri di urbanizzazione, le modalità di cessione delle aree per servizi, i criteri per valutare l’interesse pubblico negli interventi di trasformazione. Strumenti che esistono già nell’ordinamento e che non richiedono l’intervento del Parlamento.