In italiano aulico si direbbe chiagni e fotti. Qui, in modo corrente, diciamo che lascia almeno perplessi la tesi secondo cui i magistrati sarebbero a rischio di mordacchia. Pure, la tesi che sfila è ormai questa. Giusto l’altro giorno – mentre, come ogni giorno, tutti i quotidiani e le televisioni d’Italia erano impegnati nel riporto di qualsiasi sbuffo togato – un noto collaboratore de Il Fatto Quotidiano, Gian Carlo Caselli, ha scritto che «le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio». E spiega: «Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare». Il che, per il collaboratore del giornale di Marco Travaglio, sarebbe assurdo: come se si pretendesse il silenzio dei medici quando si discute di sanità o quello dei giornalisti quando si parla di informazione.
Che dire? Un paio di cose. La prima: che davanti alla scena di un dibattito pubblico dove la parola della magistratura corporata non è propriamente inibita, queste considerazioni di Gian Carlo Caselli si profilano in modo abbastanza incongruo. Forse assistiamo a uno spettacolo diverso, ma a noi francamente non sembra che nella temperie italiana il diritto di parola del magistrato incontri gravi impedimenti di esercizio. Ma una seconda osservazione bisogna fare a proposito di quel che scrive: e cioè che paragonare i magistrati agli esponenti di altri mestieri non si può, perché il mestiere di magistrato non è un mestiere come un altro.
Se si discute pubblicamente di dare questo o quel potere alle forze armate, a me suona un po’ male che un colonnello a capo del suo reggimento partecipi al convegno pretendendo di “dire la sua”. Perché magari lui non lo vuole, ma c’è almeno il sospetto che le cose che dice possano affermarsi grazie al timore incusso dalle armi che la società gli ha dato il potere di maneggiare. Ed è un potere che al militare è stato attribuito per proteggere la società dalla sopraffazione della violenza illegale: non per partecipare alla vicenda civile e politica del Paese. E nel caso dei magistrati è tanto diverso? Non è tanto diverso e anzi è proprio lo stesso. Perché anche il magistrato è un uomo armato: è armato del potere di giudicare e imprigionare le persone, e questo potere non è meno offensivo giusto perché punta contro i cittadini la minaccia del carcere anziché la bocca di un fucile.
Probabilmente nemmeno lui, nemmeno il magistrato che, armato del suo potere, pretende di dire la sua al modo del colonnello in parata, vuole davvero che le sue parole, i suoi propositi di riforma, le sue istanze di governo della giustizia, rischino di imporsi in forza della capacità intimidatoria dei pericolosi strumenti di lavoro che la società gli ha messo in mano. Ma io discuto molto mal volentieri se il mio interlocutore ha una pistola, e non è che sono più tranquillo se anziché metterla sul tavolo la tiene nella fondina. Pare che la questione neppure vagamente impensierisca i magistrati che rivendicano il diritto di occupare ogni luogo del dibattito pubblico in tema di giustizia.
E visto che non li impensierisce i casi sono due: o non si rendono conto di quanto sia pericoloso che il loro intervento si imponga sulla scena di una società intimorita dal loro potere, e allora si tratta di una improbabile buona fede che sarebbe anche facile perdonare; oppure se ne rendono conto benissimo e cioè sanno perfettamente che il loro eloquio è invigorito dal potere di cui dispongono, vale a dire il potere di rinchiudere in una cella la vita di una persona: e allora quella buona fede è irriconoscibile, ed è imperdonabile la loro pretesa d’aver voce in capitolo. Vorremmo magistrati inchinati davanti al potere di cui dispongono, cioè timorosi e saggi nell’esercitare il potere immenso che gli abbiamo attribuito. Invece spesso vediamo una magistratura impettita, che ci intima di inchinarci davanti alla sua pretesa di dire e fare tutto ciò che vuole.
