A Donald Trump piace essere adulato. Come ha fatto Mark Rutte al summit Nato della scorsa settimana. Saprà farlo anche Šefčovič? In attesa di conoscere i dettagli delle proposte del commissario Ue al Commercio per i dazi, Gregory Alegi (Storia delle Americhe alla facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli) riflette sul futuro delle relazioni transatlantiche.
Professore, Šefčovič è partito per Washington ottimista. Vuol dire che la partita dei dazi si chiuderà bene?
«I dazi si stanno rivelando un’arma negoziale. Da questo punto di vista, qualcosa stanno ottenendo. Ma non nelle dimensioni da essere uno strumento economico. Ridotti a pochi punti percentuali, infatti, non bastano per compensare le minori entrate generate dal taglio delle entrate fiscali. Trump sperava di ricreare un modello economico finito con il 16esimo emendamento del 1913, che, a suo tempo, spostò il finanziamento principale dell’Unione da dazi e consumi al reddito. Esiste però una realtà con cui bisogna fare i conti».
Ancora una volta Trump non riesce a risolvere i problemi in un colpo solo.
«Trump ci fa delle concessioni e non chiude il buco di bilancio federale. Tant’è che tutte le proiezioni sono di esplosione del debito pubblico. A questo punto, si prevede che otterrà un risultato spendibile soltanto agli occhi dell’elettore meno attento. Dirà che è riuscito a piegarci; in realtà i dazi non avranno la funzione di bacchetta magica com’erano stati presentati in campagna elettorale».
Si avrà una replica di quello che sta facendo con il Canada.
«Ecco, questa è la parte più interessante della vicenda. Il governo canadese ha fatto marcia indietro sulla digital tax. Bisogna capire se abbia usato quella tassa come leva per costringere Trump a sedersi al tavolo o se, invece, abbia avuto paura delle sue reazioni. Fatto sta che sono tornati a negoziare».
Torniamo ai rapporti con l’Europa. Pur simulando un lieto fine nella vicenda dei dazi, le relazioni transatlantiche sono cambiate per sempre?
«Trump è un leader suscettibile alla piaggeria e all’adulazione. A noi Rutte è apparso ridicolo quando gli si è rivolto con quel “Daddy”. In realtà, è stata una manipolazione per ottenerne il favore. Conoscendo un po’ la psicologia nord-europea, è difficile credere alla sincerità di quella frase. Trump non ha percepito l’ipocrisia. Ai suoi occhi, l’aumento delle spese per la Difesa è un successo. In realtà, è un accordo ambiguo, che non spiega le spese ammissibili».
Quindi si può dire che i rapporti Ue-Usa andranno a normalizzarsi, dopo comunque un sensibile cambiamento?
«Gli Stati Uniti rimangono l’alleato di riferimento. Cambia il rapporto pratico. Quando qualcuno mi minaccia, io Europa devo predispormi per non essere ricattabile. Faccio un esempio. La Francia ha deciso di prendere dei radar volanti, degli Awacs (Airborne early warning and control system, il sistema aviotrasportato radar per la sorveglianza aerea, ndr), di produzione Saab svedese. Mentre finora erano americani. Il velivolo è canadese, i relativi motori sono tedeschi. Con tale scelta, la capacità radar della Difesa di Parigi non è più controllabile dagli americani. Questi cambiamenti al dettaglio diventeranno più frequenti».
Non una rottura, ma un allontanamento tra le coste dell’Atlantico.
«Quindici anni fa l’idea di una Difesa alternativa a quella americana, portata avanti dai francesi, avrebbe avuto una valenza imperialista; oggi ha come obiettivo la riduzione del ruolo degli Usa. Si avverte la prudenza di non dare le chiavi di casa nostra a qualcuno che minaccia di non restituircele. Si continuerà a fare le cose insieme, ma la prima sfida di questo nuovo equilibrio sarà la difesa antimissile. Ci serve un nostro “Euro Dome”, una capacità missilistica basata su tecnologie europee. Qui, come altrove, senza le capacità Nato a guida Usa. Se finisse così, butteremmo via i soldi».
Dopo l’Iran, Trump è tornato al tavolo dei dazi. Una priorità per il suo Maga. Cos’è cambiato?
«L’efficacia dei raid in Iran resta da dimostrare. Non bastano delle foto satellitari. Però è stato fatto un attacco chirurgico che non ha portato gli Usa in guerra. È stato il bullo che ha dato due schiaffi e l’altro non ha risposto. Al che, il primo (Trump) ha detto: “Adesso trattiamo”. Visto così, anche questo è Maga. Certo, bisogna vedere come va a finire».
Soprattutto cosa intende fare Israele.
«Israele ha pagato un prezzo politicamente molto alto. Perché ha dimostrato di non poter eliminare la minaccia nucleare iraniana da sola».
Netanyahu ne è consapevole?
«Netanyahu si dimostra ancora un abile tattico. Ma resta la domanda strategica. Nel momento in cui questa dipendenza dagli Stati Uniti è evidente, Trump o una futura altra Amministrazione potrebbero decidere di utilizzarla per costringere un futuro governo israeliano, non necessariamente Netanyahu, ad allinearsi alle direttive della Casa Bianca».
