Senza socialismo siamo destinati a estinguerci

Socialismo è una parola ingombrante. Se c’è, occupa la scena. Perché non lo sia, devi abrogarla. Frei Betto, il teologo della liberazione, l’autore del Nuevo Credo, ebbe modo di dire che delle grandi parole del 900, comunismo, socialismo, liberalismo, e altro ancora, socialismo restava l’unica che, sebbene acciaccata restasse viva. Era, in realtà, più un auspicio che una constatazione, eppure non è inutile indagarne ancora il senso e l’attualità.  Socialismo è cosa ormai consegnata alla storia o è, ancora, magari diversamente da come l’abbiamo conosciuta nella nostra storia, un’immagine di futuro? Essa è stata l’erede delle tre grandi parole consegnateci dalla rivoluzione francese, “libertè, egalité, fraternité”, che ha unito e trasceso in un’idea di nuova società e di una nuova umanità che un protagonista dell’avvento avrebbe conquistato con il superamento-abbattimento della società capitalista, la società dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Quel protagonista prende la sostanza e la forma del proletariato, del mondo del lavoro. Il suo profeta indaga il processo storico di questa impresa.

Karl Marx vede in esso il superamento delle libertà borghesi che propugnano l’eguaglianza del cittadino ma confermano la diseguaglianza sociale, lo sfruttamento e l’alienazione capitalistica. Il socialismo che, in quel contesto, era, non casualmente, intercambiabile con comunismo, nasceva dunque per cambiare il mondo, per realizzare la liberazione dell’uomo e dell’intera umanità. Era il sole dell’avvenire. Il 900, il secolo grande e terribile, ne è stato investito in pieno con una forza tale che neppure i rovesci e le tragedie che l’hanno colpito l’ha costretto all’abbandono. 900 e socialismo si sono avvinghiati in un corpo a corpo che li ha resi inseparabili. Simul stabunt, simul cadent.

Ma ora che il 900 è finito, il socialismo è finito con lui oppure gli è richiesta una nuova vita? Alla fine del secolo il movimento operaio, che ne è stato il protagonista, con una storia essa stessa grande e terribile ne è uscito sconfitto a Ovest e con un fallimento ad Est, in Europa. Eppure questo esito drammatico non cancella la sua storia, il suo lascito, la sua lezione, a saperla cogliere. Troppo alta è stata la sfida intrapresa, troppo grande la realtà sociale, culturale, politica coinvolta, troppo giustamente ambiziosa la meta, troppe e troppo straordinarie le esperienze di vita di milioni di donne e uomini nel mondo. Quel “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo ha dipinto una realtà e un sogno nella politica e nella vita quotidiana con una connessione, un’unità che non si era mai conosciuta prima e che non si è vista più dopo la grande crisi. È stata anche un’epopea che ha fissato persino le immagini del popolo delle bandiere rosse e dell’Internazionale, dai cappelli neri a larghe falde e dalle Lavallière fino alle tute blu, di un popolo vivificato dal segno delle donne. Un popolo con i suoi riti, le sue liturgie, le sue istituzioni, le sue grandi invenzioni sociali, il sindacato di classe, il partito di massa, la cooperazione.

Da questo mondo sconfitto emerge potente una lezione carica di futuro, una lezione che suona come una critica radicale alla politica mortifera del nostro tempo e ne indica una via d’uscita. Il socialismo in politica è prima di ogni altra cosa una connessione tra questa e la vita quotidiana, è l’agire collettivo e personale per anticipare nel presente le relazioni della città futura; è la connessione sentimentale tra i militanti, gli intellettuali, il popolo e le sue organizzazioni. È questa lezione che fa intendere l’incrocio tra il socialismo e il cristianesimo e c’è una parola che dà conto della natura dell’incrocio, la parola è fraternità. Una pratica spesso negletta e a volte vilipesa nella storia concreta delle organizzazioni del movimento operaio, specie nei suoi ceti politici, ma sempre sentita come un bisogno, come una ricchezza, necessaria e a volte praticata come una risorsa dell’appartenenza al mondo del socialismo. Riformismo e rivoluzione sono state le sue idee forza. Esse si sono contrastate e contaminate in tutta la sua storia. In Italia esse hanno preso la forma, nella loro realtà prevalente dei due partiti, quello comunista e quello socialista.

Va detto che fino a un tempo recente – grosso modo quello nel quale i partiti socialisti in Europa approdano alla terza via, forse iniziata però già nel 1959 a Bad Godesberg – i riformisti condividevano con i rivoluzionari l’obiettivo della costruzione della società socialista e dal superamento del capitalismo. È proprio questa condizione che consentirà in Italia negli anni 60 l’emergere di una tendenza politico-culturale che verrà chiamata, da Giles Martinet, dei riformisti rivoluzionari, per significare in essa l’assunzione del processo graduale della trasformazione e, insieme, del suo obiettivo di realizzare la società socialista. Restava il primato del socialismo, pur di fronte alla nascita di un nuovo tipo di capitalismo, quello che fu chiamato il neocapitalismo.
E ora? Ora di fronte ad un nuovo sconvolgimento di un capitalismo che ha vinto contro il suo avversario storico ma che, di fronte alle nuove contraddizioni che esso genera, agli squilibri sociali, alle diseguaglianze, alle devastazioni della natura aggrava drammaticamente la crisi sociale, la crisi ecologica e la deprivazione di umanità, oggi il socialismo ha ancora qualcosa da dire, ci parla ancora e, se sì, di cosa ci parla? Ci viene in soccorso una donna, “una rivoluzionaria” del secolo scorso che col socialismo ha legato la sua ricerca e la sua vita intera: Rosa Luxemburg. Fu lei a porre l’alternativa “Socialismo o barbarie”.

Abbiamo già avuto modo di scrivere qui che oggi della barbarie sappiamo tutto perché vi viviamo immersi, così immersi da veder affiorare il rischio della catastrofe, mentre del socialismo nel nostro futuro sappiamo ormai poco dopo l’eclisse che in Europa l’ha investito con la sconfitta subita nel 900. O, forse, sappiamo ancora troppo poco. Eppure lo spettro continua ad aggirarsi seppure in forme spurie, inedite, poco conosciute e poco studiate, in primo luogo per la morte della politica e per la crisi della democrazia.

Lo spettro prende perciò una forma tanto irrisolta quanto decisiva del nuovo terreno di scontro e del conflitto, prende la forma della rivolta. Non è questa la sede per una riflessione, sebbene sempre più necessaria e urgente, su di essa. Per avere un’idea della sua importanza, possiamo anche soltanto osservare la sua estensione. Essa si è manifestato in Algeria, in Argentina, in Bolivia, in Cile, in Columbia, in Ecuador, in Egitto, in Francia, a Hong Kong, in India, in Iran, in Iraq, nel Libano, in Marocco, in Sudan, nello Zimbabwe. Troppo per non vederla strettamente connessa con questa organizzazione del mondo, della società, dell’economia capitalista. Le rivolte sono diversissime tra loro, le micce che le innescano pure. Molte di esse prendono di mira le leadership, non ancora il sistema.

Ma se guardate dall’interno, spesso si vede anche altro, la denuncia delle ingiustizie, delle diseguaglianze e la nascita di forme di autorganizzazione, di autogoverno popolare. Chiamale se puoi, elementi primordiali e spuri di socialismo. Essi contengono una critica e una domanda radicale. Ma anche nella politica istituzionale si affaccia imprevista qua e là la parola fin qui negata: socialismo. Lo ha fatto Corbin in Gran Bretagna, lo fa, ancor più significativamente, Sanders negli Usa. Ancor più significativamente perché lì era, e non da ora, bandita. Perché dopo la sconfitta storica e una damnatio memoriae che l’ha colpita, la parola socialismo riemerge, dentro e coperta dai materiali critici di un’altra fase della storia sociale e culturale, come nella rivolta o come definizione di sé in un nuovo modo di fare politica, come accade negli Stati Uniti?

Io credo perché comincia a vedersi l’incompatibilità del capitalismo finanziario globale non solo con la democrazia e i bisogni delle popolazioni, a partire dal nuovo assetto del lavoro, ma più in profondità col destino dell’umanità. E qui che può riaffiorare il bisogno di liberazione e con esso di quell’antica speranza che si è chiamata socialismo. Non nella politica in Europa, dove le sinistre sono scomparse come tali, cioè hanno smesso di esserlo quando quello è uscito di scena. E se per tornare a vivere, per rinascere, le sinistre dovrebbero proprio tornare all’origine, al socialismo?