Separazione delle carriere, le sinistre riflessioni di Piercamillo Davigo

Con la separazione delle carriere i PM si coalizzeranno per intimidire i giudici che assolvono, vaticinava Piercamillo Davigo qualche settimana fa. Per capire cosa ispirava l’ex PM sul prossimo far west nei rapporti tra PM e Giudici separati, non occorre rivolgere lo sguardo al futuro e fare sforzi di immaginazione. Basta riflettere sull’attualità, sullo stato della giustizia penale, sull’impermeabilità delle tesi di parte pubblica, sullo stato dei diritti di libertà violabilissimi nella fase delle indagini in cui la voce della difesa è fioca e la visione poliziesca sommerge gli spazi della giurisdizione. O più in generale, sul quadro delle regole che limitano il potere punitivo, divenute vaghe: a precisi comandamenti si sostituiscono indirizzi e linee guida e nello spazio anomico fluttua un potere discrezionale ancorato a sensibilità personali e visioni etiche. In tali condizioni, sbiadita la garanzia più importante, il primato della legge, nel conflitto con l’autorità, il cittadino imputato rischia di soggiacere, a prescindere dalle sue buone ragioni.

Senza bussola i giudizi diventano imprevedibili. Anzi, prevedibilissimi se viene eletto a criterio del corretto esercizio del potere di giudicare, la rispondenza della decisione alle aspettative dell’accusatore titolare della pretesa punitiva e attore politico che detta l’agenda alla pubblica opinione. C’è una strada lastricata e agevole che conduce alla condanna; una impervia e rischiosa verso l’assoluzione dell’imputato che per essere stato incolpato, si sa, è un presunto colpevole.

E allora il paradosso di Davigo assume un senso più preciso, descrive l’attualità dominata dal modello del giudice “di scopo” che, preoccupato di debellare il malaffare, accetta di essere terminale efficiente di un sistema di controllo e punizione che non tollera i limiti posti a tutela delle libertà individuali. Quelli che il giudice terzo dovrebbe garantire. E quando il vate pronostica una grama condizione per il futuro giudice delle carriere separate, in realtà, ha in mente una specie di giudice che sopravvive con fatica specie negli uffici in cui si gioca la partita decisiva sulla libertà, patrimonio e reputazione: il giudice non omologato che non sa adeguarsi alle spinte convergenti degli apparati polizieschi e della società impaurita (ed inferocita), è insomma “un’anomalia” della storia che stiamo vivendo. A costui e solo a costui potrà capitare di vivere, in inquietante solitudine, lo stigma del “disfattista” (nel migliore dei casi).

Davigo parla di cosa accade quando si incrina il rapporto di reciproca solidarietà e protezione tra giudice e accusatore pubblico stretti nell’appartenenza al medesimo apparato. Racconta di un sistema in cui l’assoluzione è inspiegabile perché la verità è posseduta dall’accusatore. Un sistema sfigurato nei suoi connotati di garanzia, con la cultura del dubbio degradata a fattore corruttivo della funzione, e con il giudice che assolve esposto al sospetto di intelligenza con il nemico della società che l’ha fatta franca.

Quella di Davigo non è una previsione di un futuro fosco in cui i Pm adotteranno misure per attentare all’indipendenza e libertà del giudice. È una diagnosi cruda ma efficace dell’esistente.  Agita lo spauracchio del superpotere che verrà ma racconta le miserie e distorsioni del superpotere che si è strutturato e radicato a partire dal 1988 – col nuovo codice che ha affidato al PM la direzione della polizia giudiziaria – e si è enormemente rafforzato, concentrandosi, dopo l’istituzione delle procure distrettuali nel 1991. A corto di buone ragioni, i detrattori della riforma raschiano il fondo del barile. Davigo non è il solo che sostiene che andrà peggio se la riforma inciderà sulla trama dei legami fortissimi che avviluppano giudici e pubblici ministeri e confondono i rispettivi ruoli e culture. Ma, converranno, quello della “padella alla brace” non è un argomento rassicurante specie quando la minaccia della brace proviene dall’addetto alla padella.

È tempo di cambiare perché gli squilibri di potere hanno corrotto anche l’idea del “processo giusto”.  Ma la diffusa ostilità dei magistrati al cambiamento suggerisce che la riforma costituzionale, quando e se sarà varata, sia niente più che un punto di partenza perché un nuovo assetto costituzionale di per sé non libererà energie positive orientate alla sua attuazione. È l’utile monito che viene dalle sinistre riflessioni di Davigo.