Sono trascorsi 25 anni dall’ultimo atto della liquidazione politica di Bettino Craxi: la morte in esilio, ad Hammamet. Ribadisco: in esilio. Dopo un quarto di secolo dalla scomparsa è forse arrivato il momento della resa dei conti. Quella di Craxi è stata la più classica delle eliminazioni di un importante personaggio pubblico attraverso l’uso delle procedure giudiziarie. E la morte in esilio è soltanto un epilogo.

Bisogna leggere le sentenze

La giustizia politica non si limita a neutralizzare corpi: espone i propri bersagli anche e soprattutto a quei rituali collaterali che gli antropologi definiscono “di passaggio”, come quelli di degradazione e del capro espiatorio. La letteratura sulla giustizia politica è sterminata ma sembra ignota a quella pletora di giornalisti e opinionisti politici che ancora oggi si limitano a chiosare sul caso Craxi con il solito laconico: ci sono le sentenze! Dire che ci sono le sentenze non significa niente. Sarebbe come dire, commentando il maltempo, che piove perché piove. Invece bisogna leggerle quelle sentenze, comprenderle, analizzarle semanticamente, capire attraverso quali prassi e quali metodi giudiziari ci si arrivi: chi osasse guardare nel vespaio giudiziario dei processi a Craxi resterebbe sorpreso. Sorpreso dal pregiudizio, dalla ostilità preconcetta, dal carattere puramente politico di quelle azioni giudiziarie.

Il processo politico artificiale

Per affermare la politicità dei processi contro Craxi non bisogna essere necessariamente detrattori di Mani Pulite. Già all’epoca, gli stessi magistrati del pool di Milano, avevano rivendicato una legittimazione mediatica e popolare. Se la stampa non si fosse stata cartellizzata e completamente allineata ai desiderata strategici della Procura di Milano, certe affermazioni avrebbero dovuto far sobbalzare invece di essere difese e ratificate, fino ad una riedizione nostrana del maccartismo che rendeva l’innocenza un’arma inutile. Dalla guerriglia della giustizia di Davigo contro la classe politica, fino all’operazione “grande bucato” di Borrelli, otteniamo la giusta miscela per ciò che il pioniere degli studi sulla giustizia politica – il giurista e politologo tedesco Otto Kirchheimer – aveva definito come il “processo politico artificiale”. Kirchheimer osservava già a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, come la giustizia politica prendesse piede più nelle democrazie costituzionali che nei regimi totalitari data l’alta carica legittimante di una eventuale pronuncia di condanna di un tribunale supposto autonomo e imparziale. Appunto supposto; perché poi nella realtà i giudici, come chiunque altro, possono essere condizionati da pressioni ambientali e sociali di ogni genere.

I giudici condizionati

L’opinione pubblica non è – come nei regimi totalitari – attore passivo del processo, bensì svolge un ruolo attivo, diventando l’ausiliario di un vero e proprio processo politico collettivo. Il pubblico è invitato a risolvere un enigma composito, ma stilizzato, dovendo rispondere vero o falso. L’assunzione della prova di colpevolezza è strutturata intorno a deduzioni logiche sul carattere degli imputati o, talvolta dell’accusatore, presentato mediaticamente come il salvatore della patria. Una volta raccolti i dati e obliterati i rapporti col tempo storico cui appartengono, l’istruttoria è presentata al pubblico tramite i media. La capacità di comprensione dell’opinione pubblica determina i modi attraverso i quali il processo sarà poi condotto e interpretato. L’immagine del colpevole, così creata, sarà da sola sufficiente a decretarne (e farne accettare) la pubblica condanna.
Il capro espiatorio paga perché è colpevole? Per ciò che ha o avrebbe fatto? Mai, generalmente. Esso paga per ciò che è o sarebbe, ovvero sulla scorta di qualità personali, morali e fisiche che gli vengono ricondotte e che sono ritenute nefaste: il capro espiatorio paga quando è ritenuto “ladro”, “corrotto”, “latitante”, “cinghialone” e così via. L’imputato viene dipinto, allora, come una macchina altamente razionale, dato che le corti espungono tutto ciò che, di non logico o non voluto, potesse essere da questi fatto o vissuto; sembra che i motivi della sua azione non abbiano, per il giudice, la benché minima opacità: Craxi doveva sapere delle somme illecitamente pervenute al partito, non ha fatto nulla per opporsi a queste pratiche, dunque non poteva non volere tutti gli illeciti commessi per il finanziamento in nero del Partito Socialista italiano, per i quali deve rispondere per concorso morale. Fino al paradosso di costruire imputazioni per corruzione, concussione, ricettazione, bancarotta fraudolenta, senza fatto di reato, cioè senza la contestazione di comportamenti attivi previsti dalla legge come penalmente rilevanti.

La prassi maligna

Paradosso sul paradosso: si persegue un sistema, la celebre dazione ambientale, ma si isola un simbolo, un uomo, Craxi, come la sintesi storica, monosoggettiva, onnipotente, di una prassi maligna comune che temporalmente e politicamente addirittura lo precede. Il caso Craxi è stato complesso: politicamente, ma anche giuridicamente. È tempo che si offra la parola all’accusato e alla difesa; non per farne la difesa della difesa, ma perché il giudizio è fenomeno che scaturisce dalla battaglia tra due parti. E una di queste, da tanti, troppi anni, è ancora imbavagliata dai censori che difendono certe “verità” a colpi di slogan e di stereotipi; censori che hanno confiscato la Storia del caso Craxi.

Dario Fiorentino

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