Questa è una storia che ha più domande che risposte. Che ne intreccia altre, tra cui il libro dell’ex magistrato Luca Palamara “Il Sistema”, e lascia sensazioni scomode, che inquietano. Ad esempio, che le indagini talvolta dimenticano pezzi importanti per strada. Per errore, per volontà o per sciatteria, al netto dell’umana fallibilità? È una storia che potrebbe cambiare copione grazie a due variabili non previste. La prima è il virus che ha fatto slittare la sentenza di un processo di primo grado da aprile a ottobre 2020 e le motivazioni a gennaio 2021 (ne parliamo poco più avanti).

La seconda è appunto il libro di Palamara, uscito a ridosso di quelle motivazioni. A pagina 87 si legge: “A gennaio del 2015 mi attivo fortemente (è Palamara a parlare, ndr) per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone (procuratore a Roma, ndr) infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino (l’aggiunto che Pignatone ha scelto come suo braccio destro a Roma, protagonista al suo fianco delle più importanti indagini contro la mafia condotte in Calabria e in Sicilia, ndr). Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore (…). La pace siglata tra i due durerà però molto poco: di lì a breve (nel 2016, ndr) la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della stessa Questura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy”.

Occorre adesso fissare nella mente queste due variabili impreviste e tornare alla cronologia dei fatti. C’è un tribunale, quello di Perugia, che è convinto di aver raggiunto la verità circa la “frettolosa espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako”: l’ottobre scorso ha condannato due investigatori di razza nell’antimafia e nell’antiterrorismo, i questori Cortese e Improta appunto, altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. I fatti risalgono al maggio 2013 (dopo otto anni siamo alla sentenza di primo grado…) e riguardano un caso all’epoca clamoroso, l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula, 6 anni, moglie e figlia del politico dissidente e imprenditore kazako Muktar Ablyazov, ricercato all’epoca da tre paesi (Russia, Kazakstan, Ucraina) per vari reati fiscali e aver sottratto decine di milioni dalla Banca centrale di Astana di cui era stato presidente. Nelle motivazioni depositate il mese scorso si parla di “rapimento di Stato” e si afferma che “per tre giorni è stata compressa la sovranità nazionale”.

Fermiamoci brevemente su quei fatti. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, in una villetta di Casal Palocco, zona residenziale a sud di Roma, irrompono 50 agenti della Digos e della squadra mobile allertati da un’informativa dell’ambasciata del Kazakistan sulla possibile presenza di Ablyazov sul quale pende il mandato di arresto internazionale. Nella villetta non c’è l’ex oligarca ma solo Alma e Aula, ospiti di Venera, sorella di Alma, e del marito. Gli agenti trasferiscono la donna nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria contestando l’autenticità del documento esibito, un passaporto emesso dalla Repubblica centroafricana intestato ad Alma Ayan. La sera del 31 maggio, alle 22.30, la donna e la figlia vengono imbarcate su un volo con destinazione Astana. Il provvedimento di espulsione è possibile grazie al nulla osta della Procura di Roma. In calce ci sono le firme del procuratore Pignatone e del pm di turno, Albamonte.

Le indagini sulla vicenda restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha “attratto” la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonchè moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014 aveva già presentato una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva, e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti, si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. I dettagli sono sostanza in questa storia complicata. Eccone altri, utili a fissare il contesto. La Procura di Perugia all’epoca è guidata da Luigi De Ficchy, “rivale” di Pignatone che non lo sceglie come aggiunto nella Capitale. De Ficchy è anche il procuratore che nel 2017 (quindi dopo l’incontro al bar Vanni) indaga il magistrato Luca Palamara per corruzione (il gup proprio nei giorni scorsi ha chiesto all’accusa di specificare meglio le accuse nell’udienza preliminare) e che autorizza l’uso del trojan per intercettarlo. Le chat e le conversazioni captate dal trojan (fiore all’occhiello del ministro Bonafede) saranno poi all’origine dello tsunami che ha travolto il Csm, Palamara e tutta la magistratura, mettendo allo scoperto gli scontri tra le correnti della magistratura e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali.

De Ficchy ha lasciato la Procura di Perugia due giorni prima che, a fine maggio 2019, i giornali comincino a pubblicare le intercettazioni del trojan di Palamara. Infine, qualche riferimento politico, anche questo utile. A maggio 2013, il governo Letta ha da poco nominato a capo della polizia il prefetto Alessandro Pansa, dopo un periodo di vacatio dovuto alla prematura scomparsa del prefetto Manganelli. Il governo Letta ha in maggioranza il nuovo partito di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, creato dopo la traumatica scissione da Forza Italia. Torniamo all’indagine sulla “frettolosa espulsione” di Alma Shalabayeva e della figlia. Il passaporto trovato nella villetta di Casal Palocco risulta, come si è detto, falso. Motivo per cui viene avviata la procedura di espulsione. I notam dell’Interpol parlano di un ricercato per reati finanziari (il marito Ablyazov) che non gode e neppure ha mai richiesto lo status di rifugiato politico. Motivo per cui neppure la moglie può essere compresa sotto questa protezione. Il 31 maggio 2013, quindi, il procuratore Pignatone e il pm Albamonte, dopo vari scambi di carteggi con il capo della Mobile Cortese e il responsabile dell’Ufficio Immigrazione Improta, completano il fascicolo per l’espulsione con tanto di firma del giudice per i minori. Sempre il 31 maggio, nel primo pomeriggio, quando Alma e la figlia sono ancora a Ponte Galeria, si presentano in Procura a Roma i loro legali Riccardo e Federico Olivo, che comunicano che la donna ha la protezione diplomatica come risulta dal passaporto della Repubblica centroafricana. Passaporto che però è palesemente falso.

Alle 17.30 Pignatone e Albamonte firmano il nulla osta e alle 22.30 mamma e figlia sono in volo per Astana. Dopo due giorni scoppia il caso: Shalabayeva diventa la cittadina più monitorata a livello internazionale. Emma Bonino, ministro degli Esteri, accende i riflettori e si mette al lavoro per proteggere madre e figlia che infatti torneranno in Italia pochi mesi dopo con un visto turistico, ottenendo poi l’asilo politico. Placate le acque mediatiche, la Procura di Roma, tra qualche imbarazzo visto che aveva autorizzato la partenza della donna, prosegue le indagini e nel maggio 2014 il pm Albamonte indaga per abuso e omissione il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta, insieme a suoi quattro collaboratori. Poiché tra gli indagati c’è il giudice di pace romano che seguì la pratica di esplulsione, il fascicolo emigra direttamente a Perugia per competenza. Dove lo aspettano, e a quanto pare già da un pezzo, De Ficchy e l’aggiunta Duchini.

Tra i primi atti istruttori c’è il verbale del pm Albamonte. Che mette nero su bianco che la Procura autorizzò la partenza di Shalabayeva e della figlia perché i documenti centrafricani della donna erano falsi e da nessuna parte risultava che godesse dello status di rifugiato politico. La domanda è: se così stanno le cose, perché Perugia cinque anni dopo arriva a condannare con accuse pesanti i due poliziotti e non coinvolge l’ufficio della Procura romana che firmò il nulla osta? Perché, soprattutto, il Tribunale non ha mai ammesso le testimonianze del sostituto Albamonte? Se errore ci fu, fu commesso da tutti, e non solo da una parte. Diversamente, non ci fu errore. E allora le condanne di oggi sono da rivalutare.

A questo punto merita leggere alcuni passaggi del verbale che Albamonte rese all’aggiunto di Perugia Antonella Duchini. È il 2 marzo 2016, il fascicolo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia (maggio 2013) è da poco stato trasferito a Perugia. Il dottor Albamonte ripercorre le ore del 31 maggio 2013. A metà mattina – racconta – “arrivò la telefonata del dottor Cortese (Mobile e Ufficio Immigrazione della questura di Roma erano responsabili della pratiche per l’espulsione per cui era necessario il nulla osta della Procura, ndr) che chiese se c’erano motivi ostativi a negare il nulla osta. Domanda alla quale risposi non ravvisando tali motivi”. Si tratta a tutti gli effetti di un nulla osta verbale. È una giornata intensa, quella, segno che il caso della signora Alma Ayan (questo il nome noto in Procura) assume subito un certo peso.

Dopo la telefonata infatti si presenta in ufficio l’avvocato Federico Olivo, vecchia conoscenza del dottor Albamonte: “Mi disse che c’era un problema perché era stato sequestrato un passaporto che risultava contraffatto mentre invece era originale ed era anche un passaporto diplomatico”. A favore di queste tesi, l’avvocato mostra documenti consolari della Repubblica centroafricana che attestano l’autenticità del documento. Nella stessa conversazione l’avvocato “riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako, circostanza che risultava anche da fonti aperte”. Non un segreto di Stato, quindi. A quel punto Albamonte va dal procuratore aggiunto titolare del fascicolo (il dottor Rossi che poi però esce di scena per impegni personali) dove trova il padre di Federico Olivo, Riccardo. Insomma, il nulla osta verbale viene momentaneamente sospeso in attesa di verifiche sull’autenticità del passaporto diplomatico sequestrato dalla squadra mobile. La verifica però non fa cambiare idea: “Ci convincemmo – racconta Albamonte – che gli atti prodotti dalla difesa non erano sufficienti a escludere la falsità del passaporto diplomatico a nome Alman Ayan”. Dopo qualche minuto telefona il dottor Improta che sostiene di avere altro materiale utile al caso. “Il dottor Improta mi disse anche che l’Ufficio Immigrazione aveva bisogno di tempi celeri perché avevano la disponibilità da lì a poche ore di un volo per Astana”.

Non potendo assicurare tempi celeri, il magistrato suggerisce – poi dirà di non aver mai saputo della presenza di una minore – di riportare la donna al Cie di Ponte Galeria. Albamonte sottopone il caso al procuratore Pignatone. Nel frattempo si fa pomeriggio. La documentazione aggiuntiva inviata da Improta consiste nella nota di Polaria di Fiumicino; della nota kazaka datata 30.5.2013 da cui risulta che “il vero nome di Alma Ayan è Shalabayeva, titolare di due validi passaporti kazaki e di un falso passaporto a nome Ayan”; la nota del cerimoniale del Ministero degli Esteri da cui risulta che “il nominativo di Ayan Alma era stato oggetto di una richiesta di accreditamento diplomatico per il Burundi ma che la pratica risultava poi essere stata revocata”.

Raccolta e analizzata tutta la documentazione, Albamonte e Pignatone valutano che “il passaporto era falso come stabiliva la nota dell’autorità kazaka”. Inoltre, “il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni. Avevamo la pro-va della falsità del documento. La presenza dell’indagata sul territorio italiano (richiesta dagli avvocati Olivo, ndr) non era dirimente. Tutto questo rese possibile il rilascio del nulla osta”. Nello stesso verbale Albamonte sottolinea che “nessuno gli aveva mai detto le vere generalità della donna erano Alma Shalabayeva” e che “non mi era mai stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare rischi per l’incolumità della donna”. Il magistrato, proprio in chiusura di verbale, sottolinea di “non aver saputo che era coinvolta una bambina” e che nessuno gli disse che nella villa di Casal Palocco erano state rinvenute “mail da cui risultava che il nome di Alma Ayan era in realtà il nome usato da Alma Shalabayeva per ragioni di sicurezza”. Due circostanze che sembrano essere contraddette dalla lettura degli atti inviati in Procura il 31 maggio dal dottor Improta. L’oggetto scritto in testa al documento è infatti “Shalabayeva Alma alias Ayan Alma”. Nello stesso documento si legge: “Pertanto la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minori”.

Conviene qui subito dire che la bambina partì regolarmente con la mamma, come prevede la legge, e che la procedura fu seguita dal giudice dei minori, che non risultano forzature o costrizioni e che anche all’arrivo ad Astana la donna e la figlia condussero una vita protetta fino a dicembre quando il governo italiano, a mo’ di scuse, le fece tornare in Italia con un regolare permesso. Nel frattempo il marito era in carcere a Nizza arrestato per fini estradizionali.
Non ultima, va riportata la nota Interpol firmata dall’allora segretario generale Ronald Noble. La data è del 23 luglio 2013. “In sintesi – si legge – per quanto riguarda l’Interpol e qualsiasi paese membro il signor Ablyazov era un soggetto ricercato da tre paesi membri Interpol per gravi reati. Nessun paese membro Interpol sarebbe stato (il 31 maggio, ndr) in grado di sapere attraverso il segretariato generale che il Regno Unito aveva concesso ad Ablyazov lo status di rifugiato politico”.

Come potevano quindi Procura e Mobile sapere che la moglie sarebbe stata a sua volta in pericolo tornando ad Astana? Leggendo le motivazioni della sentenza che ha condannato Improta, Cortese e gli altri poliziotti i giudici sembrano invece essere partiti dall’assunto che quello fu un “sequestro di persona”, quasi una “deportazione” e non di una regolare espulsione. Quella di Alma Shalabayeva è stata certamente una vicenda strana e per fortuna senza conseguenze su mamma e figlia. E questo è quanto più conta. Restano però aperte molte domande. La prima: come funzionò davvero la catena di comando che innescò l’irruzione a Casal Palocco?

La seconda: dalla relazione del capo della polizia prefetto Pansa si desume che il capo della Squadra Mobile deliberò l’operazione sulla base dell’input ricevuto dall’ambasciatore kazako. È tuttavia evidente che né Cortese né Improta avrebbero potuto decidere autonomamente quella espulsione. Perché, poi, la Procura di Perugia non sentì tra i testimoni anche il procuratore Pignatone e il pm Albamonte? La lista delle domande sarebbe ancora lunga. E chissà che una chiave per trovare le riposte non possa trovarsi anche in quell’incontro al bar Vanni tra i due Procuratori di Roma e Perugia di cui parla Palamara nel suo libro. Tutto questo merita un approfondimento.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.