Sondaggi politici: FdI e M5S in crescita, Pd e Lega in caduta libera

A sei settimane dalle elezioni, si cominciano a vedere gli effetti delle stesse, sulla maggioranza e sull’opposizione. Meloni, ormai primo ministro, senza avere una fiducia personale particolarmente alta (40,6%, sia pure in crescita grazie al periodo della “luna di miele”), rispetto, ad esempio, a quella di Draghi all’inizio del suo mandato (65%), trascina personalmente il suo partito verso il 30% dei consensi rilevati nei sondaggi sulle intenzioni di voto. Ma la maggioranza che la sostiene rappresenta per lei una parte non irrilevante (anzi, forse la principale) dei problemi che deve affrontare. La risposta a questi ultimi da parte di chi è stata a lungo il capo dell’opposizione sembra consistere in una gestione in proprio delle relazioni internazionali, orientate verso un deciso atlantismo e un atteggiamento decisamente più aperto del passato verso l’Unione Europea, percepita ormai come un partner con cui collaborare in vista dell’interesse nazionale piuttosto che come un nemico.

Per compensare quest’ultima evoluzione (certo utile al paese o alla nazione -come si preferisce-, ma che anche gli osservatori vicini alla destra riconoscono come una conversione), Meloni sembra accettare di dover “dire qualcosa di destra”, per non scioccare troppo il suo elettorato tradizionale e quello di recente acquisito a spese dei suoi alleati, il quale più che alle relazioni internazionali è interessato al costo della vita e al tema della sicurezza. La prima mossa – il cosiddetto decreto sui rave – è venuta fuori in modo decisamente confuso, il che non sarà piaciuto al guardasigilli, ma c’è sempre il Parlamento (per fortuna) che può riparare le sbavature redazionali e gli estremismi (nonché i palesi errori giuridici) del testo. Intanto il governo mette mano alla legge sul bilancio che ha in parte ereditato dall’esecutivo diretto da Mario Draghi e che, grazie al buon lavoro fatto da quest’ultimo, potrebbe sperabilmente essere accettato dai partner europei senza grandi obiezioni. Insomma, i segnali che manda il nuovo esecutivo sono in certa misura ambigui, ma se il primo ministro mantiene il timone con atteggiamenti di buon senso sul piano dei rapporti con Bruxelles – che poi vuol dire per l’Italia oggi in particolare con la Francia di Macron – la partenza è migliore delle aspettative dei molti che erano ostili alla vittoria della destra-centro, come si dice adesso. Certo, le tensioni interne alla maggioranza non scompariranno e potrebbero crescere in futuro, più da parte di Salvini, che di Berlusconi, che può fare più capricci che danni.

Il leader della Lega ha da subito cercato di imporre l’agenda dell’esecutivo – anche senza accordarsi preventivamente con la Meloni – con annunci anche dirompenti su diversi temi. E il costante calo nei sondaggi (oggi il Carroccio è stimato all’8%) potrebbe indurlo a fare in futuro ancora più rumore “indisciplinato”, in modo da attrarre più che possibile su di sé l’attenzione (e, dal suo punto di vista, i consensi, ciò che però rimane tutto da verificare), ma danneggiando in questo modo la leadership della presidente del Consiglio. Dal lato dell’opposizione, le difficoltà che avevano impedito la coalizione fra i suoi tre tronconi prima delle elezioni sono lungi dall’essere riassorbite. Assumono semplicemente una forma nuova. Se si lasciano da parte i vecchi credenti nel campo largo, e se si tiene conto del calo del Pd nei sondaggi (oggi al 16,5% – fonte Euromedia di Alessandra Ghisleri – e ormai superato dal M5s), al quale corrisponde una leggera crescita degli altri due segmenti dell’opposizione, si capisce la dinamica presente dei loro rapporti trinitari.

In particolare, in vista delle importanti elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio, la logica – che però non spiega mai tutta la politica – vorrebbe che i tre tronconi andassero uniti nell’uno e nell’altro caso. Ma in Lombardia le dimissioni dalla giunta regionale di Letizia Moratti e la sua candidatura con il Terzo polo fanno ipotizzare che se il Pd, Azione e i sostenitori dell’ex sindaco/a (non sappiamo cosa lei preferisca) si muovessero di comune accordo potrebbero sconfiggere la candidatura di destra. Con il compiacimento della stessa Moratti e la vittoria delle posizioni di Calenda, ostile alla alleanza del Pd con il partito di Conte. Che è la condizione che Azione pone per una alleanza con il Pd anche in Lazio. Naturalmente, queste ipotesi sono malviste non solo da Conte, ma anche da una parte considerevole del Pd, che, come da un po’ di tempo, non sa bene che pesci pigliare, ovvero, fuori dalla metafora, che scelta fare. Si capirà nelle prossime settimane, anche in base ai sondaggi locali che per ora non sono noti (a chi scrive).

Resta il fatto che le prossime consultazioni regionali (il primo test elettorale importante dopo le elezioni del 25 settembre) sembrano riprodurre, in scala ridotta e in contesti diversi, gli stessi dilemmi della campagna elettorale nazionale sviluppatasi in occasione delle politiche. Da un lato, Calenda (e Renzi) vogliono spingere la sinistra verso il centro dello spettro politico – come sembra voglia fare la primo ministro danese dopo le recentissime elezioni – abbandonando la sinistra radical-populista all’opposizione. Dall’altro, Conte, che ha ormai superato il Pd nei sondaggi, vorrebbe riproporsi come il punto più avanzato (o semplicemente più forte) dell’opposizione e dunque il leader della sinistra. Fra le due alternative, il Pd cerca di resistere comunque, con in più il disagio della sua “sede vacante” (copyright Stefano Ceccanti) e un congresso che sembra venire troppo tardi rispetto alle scelte da fare ora. E non è tanto per insipienza politica, come molti sostengono, ma perché, quale che possa essere la scelta fra queste due alternative, il partito si spaccherebbe.

Di conseguenza – e di fronte alla possibilità di una significativa frattura interna – non scegliere appare come una forma di resistenza, dell’unica strada per sopravvivere uniti. Ma non è affatto detto che questo tipo di strategia funzioni, sia nel breve, sia, tantomeno, nel lungo termine. Il pericolo è che così i consensi si erodano pian piano, anziché accrescersi, come auspicano i dirigenti del Pd.
Il risultato è che oggi la nazione appare priva di una vera opposizione, necessaria in ogni sana democrazia rappresentativa. Da anni si dice che l’Italia è in mezzo al guado. Oggi sembra che in quel posto si sia arenata la sinistra.