Spagna, accordo tra socialisti e Podemos per il governo

Manca un pugnale. Gli occhi chiusi e le cinque dita della mano di un pallido Pablo Iglesias ben aperte a toccare quanta più superficie possibile del corpo estraneo. Lo slancio dell’abbraccio del recalcitrante Iglesias verso Pedro Sanchez, rigido come un tubo idraulico e mezzo metro più alto, ha strappato un “ooooooooooohh” di burla ai fotografi presenti. La sfilza reciproca dei “con lui mai, non mi fido di quest’uomo” è lunga. Va dal “con ministri di Podemos io non dormirei più la notte” (Pedro Sanchez il giorno di convocazione delle elezioni anticipate del 10 novembre). Al “Chissà se dorme tranquillo adesso che 50 deputati di estrema destra sono entrati in Parlamento”. (Pablo Iglesias la notte dopo il voto). Il governo delle sinistre in Spagna ci sarà. L’ha messo su Pedro Sanchez, il segretario dei socialisti uscito vincitore dalle primarie del congresso Psoe, il partito socialista spagnolo, proprio con la promessa di trovare un accordo di governo con gli ex movimentisti di Podemos, in realtà strutturati in un partito dalle imbracature rigidissime nel quale o si sta e si tace, o si esce.

Per farcela, Sanchez ha dovuto dare ad Iglesias, il suo avversario a sinistra ormai da più di dieci anni, quel che fino a un mese fa gli negava: una vicepresidenza di governo (a lui personalmente) e dei ministeri tra i quali quello del Lavoro. Non basteranno. Alle elezioni di novembre, le terze in un anno e mezzo, Podemos e Psoe hanno perso 10 seggi. Per avere la maggioranza stavolta Sanchez ha bisogno dell’astensione di tutti i partitini di sinistra, nazionalisti e separatisti. Innanzitutto di Erc, i separatisti catalani più disposti al dialogo. E poi dei minori, con i quali un accordo di massima già c’è ed è abbastanza vagamente sintetizzato nella promessa che “il governo si impegnerà a trovare una soluzione politica alla questione catalana nei limiti della Costituzione”. Limiti intesi da Podemos e da Pedro Sanchez in modo assai diverso. Iglesias, a proposito di Sanchez (in un dibattito elettorale prima delle elezioni di aprile, dopo le quali non si riuscì a mettere insieme una maggioranza perché l’accordo con Podemos non si trovò): “Abbiamo una discrepanza di fondo con il signor Sanchez perché lui è favorevole a un referendum per l’autodeterminazione della Catalogna il quale avrebbe il solo risultato di dividere in due la società catalana”.

Allora, subito dopo le elezioni di aprile, un accordo i due non lo trovarono perché, dice Sanchez: “Iglesias voleva stare nel governo ma senza sottoscrivere un accordo, voleva stare dentro per avere potere e stare fuori per avere consenso”. Iglesias nega, dice: “Pedro mi ha detto prima e dopo il voto che avremmo fatto un governo di coalizione e poi non voleva dare incarichi, ha bisogno di tutto il potere per sé per dormire bene, io non mi fido di lui, mai con lui”. Ed eccoli invece ora, belli stretti. Perché tornare a votare otto mesi dopo quell’accordo mancato ha portato una grossa novità in Parlamento: cinquanta deputati di estrema destra al comando di un tipo tozzo, taurino, che invoca dio patria e famiglia. Santiago Abascal, improvvisatosi capo di un partitino nazionalista, Vox, con slogan contro l’immigrazione e soprattutto contro le smanie separatiste della Catalogna, ha raddoppiato i voti da aprile ad oggi ed è il terzo partito di Spagna. L’ascesa di Vox ha radicalizzato a destra il già non poco franchista conservatorismo spagnolo. Il partito popolare, franato a destra, si sente tanto incalzato da Vox che mai appoggerebbe dall’esterno un governo socialista con dentro Podemos. Ciudadanos, il fenomeno effimero risultato del copiare a destra l’operazione fatta a sinistra da Podemos, è quasi scomparso. Dopo il boom del debutto si è progressivamente sgonfiato e ora potrebbe contrattare qualcosa con Sanchez in cambio dei suoi 10 voti nella speranza di non scomparire del tutto e far riciclare a sinistra parte della sua dirigenza. Ciò permetterebbe a Sanchez di non dover dipendere dai capricci dell’intero mondo dei separatismi locali: Más País, Pnv, Prc, Bng y Teruel Existe, organismi minuscoli e tenaci.

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Psoe e Podemos insieme hanno 155 dei 350 seggi del Congresso. Sette ce ne ha il Partito vasco, tre Mas Pais Compromis (già ingaggiato dai socialisti in maggioranza) un seggio i nazionalisti gallegos, un altro il partito regionalista di Cantabria e uno Teruel Existe. In tutto sono 168. L’ipotetica astensione dei 10 di Ciudadanos non sarebbe sufficiente a Sanchez in Parlamento senza l’appoggio degli indipendentisti catalani o baschi (che tradizionalmente si astengono). Altra storia sarà governare. Già solo con Podemos individuare un programma di governo da realizzare con un’alleanza reale pare impossibile. La bozza di patto sembra abbastanza vaga sui punti principali. Non solo non c’è la lista delle vicepresidenze e dei nomi dei ministri. Ma non si parla proprio di riforma del lavoro, entrambi i partiti ce l’avevano una riforma del lavoro nel programma elettorale ed erano due programmi assai diversi. Tutta l’enfasi riservata a quella vaghissima necessità “di garantire la convivenza in Catalogna”, gran brutta gatta da pelare per entrambi. Incalzati ieri ad affrontare a tutti i costi il tema che più vorrebbero rimandare dal Tribunale costituzionale che ha reso pubbliche le ragioni del disaccordo di tre dei suoi dodici giudici sulla decisione di non far uscire dal carcere i leader del procés, il braccio di ferro politico giudiziario giocato con affollate dimostrazioni di piazza attraverso il quale gli indipendentisti catalani hanno tentato nel 2017 forzare la mano per ottenere l’indipendenza da Madrid.

Le motivazioni del disaccordo dei tre giudici alla sentenza si riferisce particolare alla detenzione di Oriol Junqueras, presidente di Erc (Esquerra republicana catalana) lasciato in galera quando era candidato alle elezioni catalane del 21 dicembre 2017 e dopo essere stato eletto deputato. L’argomento dei giudici è ovvio: si sono lesi i suoi diritti di partecipazione politica e si è impedito il libero e regolare funzionamento del parlamento catalano. Tutto ciò rispalanca il dibattito sul rispetto delle libertà politiche dei politici condannati per aver celebrato a tutti i costi il referendum, indetto al di fuori della legge, sulla Catalogna indipendente, il primo ottobre del 2017. Questo è proprio l’ultimo dibattito che Sanchez e Iglesias sono disposti ad affrontare nei giorni della ricerca dei voti per formare una maggioranza di governo. Peraltro insieme e dovendo fingere di essere d’accordo.

Sgomenti di fronte a tanta simulata armonia ritrovata si dicono molti militanti socialisti e alcuni elettori di Podemos. “Chi non s’è mai trovato nella vita in quella sgradevole situazione di dover ascoltare, separatamente, le lamentele adirate dei due amici membri di una coppia in lite furibonda” scriveva tempo fa Elviara Lindo su El Pais. “E allora che tu, che hai già vissuto questo momento perché l’hai già letto in Proust che sulla questione ha scritto tutto quel che c’era da spiegare, non vorresti immischiarti. Poi dopo qualche giorno te l’incontri tutti abbracciati a una festa. Lo sai che dovresti andare lì a fingere di brindare per quest’amore rinato ma, porca miseria, non ce la fai. E datemi almeno il tempo di digerire il riposizionamento. Noi osserviamo tanta focosità con un certo stupore perché durante le accuse di Pedro contro Paolo e Paolo contro Predo, noi che tifavamo per il governo delle sinistre non abbiamo potuto evitare di prendere partito. Ora. diciamolo, abbracciarsi è significativo, va bene, ma ora vogliamo vedervi dormire insieme nel celebre materasso matrimoniale e mantenervi d’amore e d’accordo”. A ballare stretti stretti.

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