L’entusiasmo delle premiazioni per le Michelin 2026 – le nuove e quelle confermate – non si è ancora sedato. Però è già il tempo di fare una riflessione pacata. Ci viene in aiuto Luciano Pignataro, giornalista e scrittore enogastronomico, curatore del sito, Lucianopignataro.it.
Luciano, reality show e food influencer, la Stella Michelin brilla ancora nel firmamento dei riconoscimenti agli chef?
«La Michelin è un totem e questa concorrenza che ne alimenta il fascino. Per alcuni chef, soprattutto i più giovani, è addirittura un’ossessione. Gli chef stellati negli anni Novanta accoglievano la Stella con maggior disinvoltura. Nel corso del tempo, è stata la stessa Michelin ad aumentare il suo potere attrattivo, sfruttando il campo libero lasciato dalle guide storiche italiane».
Merito ancora del mistero dei suoi ispettori, che arrivano in incognito. Questa suggestione rimane?
«In un mondo iperconnesso, l’impenetrabilità della Michelin si è ridotta. Resta però un elemento di forte distinzione tra l’ispettore Michelin e quello di altre guide. Il primo si comporta da cliente e paga il conto. Mentre nel caso delle altre guide, si è creato un meccanismo di coabitazione tra critico e criticato».
La Michelin è estranea a tutto questo.
«La Michelin non organizza congressi, o convegni. Resta così la sensazione di essere giudicati da una parte terza».
Facciamo un bilancio della Michelin in Italia. Siamo secondi al mondo per ristoranti stellati. Una forza attrattiva per il Paese?
«Siamo in una fase in cui chi lavora nelle grandi città è favorito, ancor più chi è basato nelle zone turistiche. È passato il mito della Stella assegnata ai ristoranti isolati in campagna. Il settore si sta polarizzando tra le cucine degli hotel di alta categoria e quelle nei grandi centri urbani».
Nel dettaglio, la Campania viene subito dopo la Lombardia nella classifica nazionale. La provincia di Napoli è prima assoluta. È il Sud che ci piace.
«La gastronomia è il risultato di una storia. Napoli è una grande città da oltre tre secoli. Molto inclusiva, che da sempre sa introiettare usanze, prodotti e ricette che vengono da fuori. Michelin premia questa identità partenopea, con i suoi ristoranti e hotel».
Ecco gli hotel. Il ristorante Alain Ducasse quest’anno è la new entry delle Michelin napoletane con l’executive chef Alessandro Lucassino. Ed è al nono piano dell’hotel Romeo. Non è un caso isolato. Come si spiega questa crescita degli stellati negli hotel?
«L’Italia ha capito finalmente che l’albergo non è un posto dove dormire e basta. E devo dire che Romeo è stato il primo a intuirlo. L’hotel non è solo stanze e colazioni. Se vuoi che sia una struttura a reddito devi farlo funzionare 24 ore al giorno. Devi far sì che il cliente utilizzi i suoi servizi il più a lungo possibile. Altrimenti è attratto da quello che c’è fuori. Ora, se vado a Capri, una volta che ho fatto il giretto di vicoli e piazzetta, vado al Quisisana e il tutto finisce lì. Al contrario, a Napoli l’offerta di cose da fare e vedere è ben maggiore. Per questo un hotel come Romeo deve offrire una ristorazione che faccia concorrenza a quella che c’è in città».
Si è arrivati a mangiar bene in albergo. Finalmente!
«Esatto. Si è passati dalla “cucina d’albergo”, noiosa e quasi al risparmio, a una cucina di alta gamma. Meritatamente riconosciuta. La stella al Ducasse, appunto. Il cambiamento è partito da Napoli, poi è arrivato a Roma e si è consolidato a Milano».
Una cucina stellata è anche sostenibile?
«Quella della filosofia green anche tra gli chef è un mito da ridimensionare. Personalmente, non conosco gente che scelga un ristorante perché è sostenibile. L’assegnazione dei criteri di sostenibilità è ancora lontana dall’essere scientifica. La cucina stellata non è necessariamente sostenibile. Dipende dall’interpretazione del cuoco e altri mille fattori».
Al netto dei prodotti e della preparazione, c’è un discorso di spreco, però.
«È questo il punto di forza dei ristoranti. Al di là delle materie prime scelte, del chilometro zero eccetera, la riduzione dello spreco alimentare è una consapevolezza raggiunta più dai ristoratori che dai clienti. Oggi, i ragazzi mangiano solamente il filetto dell’animale. Eppure la grande cucina è fatta anche di frattaglie. Questo significa buttar via il meno possibile dell’animale macellato. Vale anche per il pesce e gli ortaggi».
Chiudiamo con un discorso sull’occupazione. Lavorare in un ristorante forse è meglio che fare l’operaio. È per questo che molti giovani sognano di fare il cuoco?
«In realtà, oggi c’è in Italia una forte carenza di personale. C’è chi l’addebita ai giovani che non vogliono lavorare. Quando viaggio trovo sempre giovani che lavorano tanto e bene. Il tema qual è, però? Primo, pagare bene le persone, secondo, essere seri nel rapporto di lavoro e terzo, dalla parte del lavoratore ci vuole la passione. La ristorazione richiede sacrifici. Bisogna esserne consapevoli. Anche per mirare alla stella».
