Il presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson che si era piazzato a Parigi dalla fine della Prima Guerra mondiale per comandare in maniera visionaria e autoritaria sulle condizioni del trattato di pace, prese la Spagnola e impazzì. Sono tutti d’accordo ormai e soltanto da poco tempo gli scienziati che hanno recuperato il materiale biologico per studiare quell’influenza che sterminò più esseri umani delle due guerre mondiali messe insieme fra il 1918 e il 1921, e che hanno stabilito questo dettaglio orrendo: la seconda e la terza fase dell’epidemia portò molti malati alla follia: psicosi, depressione, cambi radicali dell’umore.
Per il mondo, la follia del presidente americano fu una vicenda storica: malamente guarito dalle febbri che lo avevano messo k.o., Woodrow Wilson sembrava preda di una allucinazione. Si schierò di colpo con il primo ministro francese Georges Eugène Benjamin Clemenceau per infliggere alla Germania sconfitta delle condizioni di vita mostruose, una povertà senza scampo, l’occupazione militare francese su larga parte del suo territorio e tutte le umiliazioni non necessarie che scatenarono subito nella Repubblica di Weimar proteste e moti di piazza, sia da parte dei comunisti (Rosa Luxemburg era stata assassinata nel 1919 nel corso degli scontri) che dei nazionalisti non ancora nazional socialisti. A rappresentare l’Italia c’era il nostro primo ministro Vittorio Emanuele Orlando che non aveva preso la Spagnola ma non parlava una sola parola di francese o d’inglese.
Gli interpreti non riuscivano a capire il suo siciliano rabbioso e fu brutalmente umiliato dal presidente Wilson il quale lo derise come indegno rappresentante del popolo italiano. Adolf Hitler si formò e crebbe politicamente nel disastro causato dalle ire psicotiche di Wilson come effetto della Spagnola che si oppose alle conquiste garantite all’Italia e che furono il fulcro della propaganda mussoliniana e dannunziana contro la “vittoria mutilata”. Tutta colpa del panico, della follia create dalla morte sui campi di guerra e dall’influenza “spagnola”, che non era affatto spagnola. Fu chiamata così perché le notizie sull’epidemia – che portò alla morte fra i 50 e i 100 milioni di persone in tutto il mondo, furono all’inizio coperte da segreto militare.
La Spagna era un paese neutrale e i suoi giornali non censurati raccontavano che cosa fosse la “peste nera”. La peste nera non era una peste, bensì un’influenza virale, quasi certamente suina, nata nel Kansas, ma spesso i malati prima di morire diventavano blu scuro, cianotici per mancanza d’ossigeno e spesso era impossibile capire se fossero bianchi o asiatici o africani, per il terribile colore della loro pelle.
I malati sanguinavano dagli occhi, dalle orecchie, dal naso e dalla bocca e morivano soffocati spargendo liquidi infetti che formavano nelle campagne della Francia in guerra una poltiglia nauseabonda e infernale, formata da carogne di muli morti in battaglia, cadaveri di soldati, malati e contadini, sui quali si accumulava il fango delle piogge autunnali e invernali ed era un fango sdrucciolevole e sudicio che avvolgeva i vivi fino a ucciderli.
Come era nata una tale malattia? I biologi hanno studiato accuratamente l’inizio dell’epidemia e hanno facilmente scoperto alcune fattorie di suini nel Kansas agricolo in cui i contadini si ammalavano di una forma influenzale non grave, in questo simile al Covid19, che lascia più del 90 per cento dei contagiati senza sintomi o con sintomi molto leggeri. Anche allora erano sintomi molto leggeri. Nei pressi degli allevamenti di maiali infetti c’era il Camp Funston, oggi Fort Riley, per addestrare migliaia di soldati destinati all’imbarco per l’Europa.
Quando per loro arrivò l’ordine di partire, una grande quantità di loro era già malata di quella che sembrava una normale influenza, aggravata dal freddo e dalla mancanza di servizi nella tendopoli. Portati nelle baracche per scaldarsi, il contagio impiegò sei giorni per diventare una epidemia. Il virus mutò in una bestia più feroce che cominciò a mietere centinaia di vittime fra gli uomini destinati alla guerra, prima ancora che si imbarcassero. Il peggio doveva venire. Il virus mutò almeno altre due volte, trasformandosi in un alieno sempre più letale. E quando, dopo oltre un anno e dopo aver fatto il giro del mondo, la malattia tornò negli States provenendo dal Sud America, era tutt’altra creatura che quella nata nelle porcilaie del Kansas.
E quella bestia attaccò città come Philadelphia, riducendole a cimiteri senza più terra per seppellire. Lo stesso era accaduto in Francia, dove i soldati americani cominciarono a contagiare gli alleati francesi e inglesi, poi i nemici tedeschi e quindi le popolazioni civili e l’India, la Cina, il Giappone, l’Africa, l’America del Sud. Le immagini che si possono reperire negli archivi mostrano ospedali di infermiere e medici morenti insieme ai loro pazienti, in un clima di censura totale deciso dai governi anche a guerra finita per nascondere la gravità dell’epidemia e l’assoluta mancanza di rimedi. I comandi militari aggravarono ulteriormente l’epidemia ordinando di vuotare ospedali, trasferire malati, spostare il personale medico, senza la minima competenza e senza alcun criterio epidemiologico.
Io ho il ricordo di mia madre, che aveva visto la “Spagnola” quando aveva otto anni, e mi raccontava del terrore, delle morti continue e del fatto che ogni famiglia creava disperate ricette e rimedi per combattere il morbo, bevendo varechina, alcol denaturato, o provocandosi ulcere mangiando quantità eccessive di peperoncino rosso e alcol nell’illusione di creare barriere di fuoco e di forza contro il virus, ma ignorando le basilari regole dell’igiene di massa. Si parlava della Spagnola, ma se ne parlava come di una cosa segreta e vergognosa che la gente cercava di risolvere fra le mura domestiche finché non arrivava il prete per l’estrema unzione.
La terza ondata dell’influenza “Spagnola” si abbatté su popolazioni – specialmente in Europa – decimate dalla guerra, dalla fame, dal cannibalismo che si sviluppò in Ucraina e Bielorussia nel corso delle requisizioni e repressioni delle nuove autorità sovietiche, ma la fame insieme all’epidemia si abbatté sulla Germania vinta, i Paesi bassi, la Spagna e l’Italia, con il suo corollario di demenza, stati allucinatori e una crescita violenta e visibile dell’aggressività. Le truppe che tornavano dal fronte dopo il cessate il fuoco nel novembre del 1918 erano sopravvissute in uno stato di totale brutalità perché per la prima volta nella storia militare gli uomini avevano dovuto combattere contro le macchine – mitragliatrici, tanks, aerei, blindati, sottomarini, siluri – e contemporaneamente contro un morbo invisibile ma presente ovunque, invincibile, imprevedibile.
I soldati si erano trasformati in corpi speciali sul modello tedesco delle Sturmtruppen, gli italiani crearono gli arditi con avanzi di magazzino (fez, pantaloni da cavalleria, camicia nera per combattimenti notturni) e su disegno di un certo maggior Bossi, poi copiato da Mussolini, ma tornarono tutti malati, febbricitanti, furiosi, mentre a Versailles si consumava l’ultimo atto di una tragedia che avrebbe poi avuto un seguito con la seconda guerra mondiale ma che allora sembrava, con la febbre in campo insieme ai fucili, di dimensioni mai viste e mai più raggiungibili. Wilson, in un delirio allucinatorio, ripeteva che questa era la guerra che avrebbe chiuso tutte le guerre, e invece apriva tutti gli spazi a ogni guerra futura.
Ma, finiti i combattimenti e placato il morbo, le gonne si accorciarono sopra il ginocchio, le ragazze si tagliarono i capelli alla maschietta, tutti ballarono il Charleston, scoppiò la febbre del sesso e dell’alcol, del gangsterismo e dei lussi di un mondo di star che sarebbe crollato meno di dieci anni dopo con il crollo di Wall Street e la grande depressione che mise di nuovo tutti in ginocchio, prima che Hitler attaccasse la Polonia e ripartisse tutti il circo della guerra.
