Giustizia
Storia di Adriano Pallotta e della rivoluzione di Santa Maria della Pietà
«Il 18 dicembre del 1974? Non me lo ricordo, no. Sono vecchio, c’ho 86 anni io, sto al mare, scusi. È che a Lavinio il telefono si sente male. Aspetti, no. Del ’74 dice? Ah! Ma vuol sapere della mattina che abbiamo fatto la rivoluzione?».
Adriano Pallotta è un ex infermiere del Santa Maria della Pietà di Roma. Fu lui a far saltare il lucchetto del padiglione degli internati del manicomio, a farli uscire.
C’era lui quel giorno a guidare il piccolo gruppo di infermieri e giovani medici in tirocinio, arrivati lì sull’onda del ’68 universitario, che sostituirono la serratura del cancello interno con una maniglia. La chiave, esistente in unica copia, sparì.
«Non è proprio che sparì. C’era uno di noi che era un fifone. Aveva paura di tutto. Della polizia, dei medici, del furgoncino della celere che vedeva dalla finestra. Di finire in galera soprattutto. Lo sapevamo noi che rischiavamo l’arresto a far saltare i lucchetti. Infatti la polizia arrivò, le manette ce le misero. In galera, però, non ci siamo andati. Siccome questo qua c’aveva più paura di tutti, perché c’avevamo paura un po’ tutti ma lui di più, la chiave l’abbiamo gliel’abbiamo messa in mano a lui. Gli abbiamo detto: vai, buttala tu, trova un posto. E lui dal terrore che ci aveva è stato fuori due ore co’ ‘sta chiave, non tornava più. Oh: non m’ha mai detto dove l’ha messa, mai».
«Ho visto morire tanta gente lì dentro. Ho visto fare molti elettroschock a pazienti svegli. Io mi sentivo un secondino, non un infermiere. Per questo quando sentii parlare degli ospedali di Trieste e Gorizia chiesi subito a Cozzo, lo psichiatra: mi spiega cosa sta facendo questo Basaglia? Mi rispose: in Italia c’è qualche psichiatra che sta impazzendo. E io vedevo tutti i giorni i saloni di sorveglianza: stanze sporche con panche di legno e pazienti costretti a rimanerci seduti dalla mattina alla sera senza fare niente. Ci sono persone che ci hanno vissuto decenni lì dentro. Sono entrati bambini. Quando abbiamo fatto saltare i lucchetti loro uscivano per la prima volta. Li dovevate vedere in giro per Roma. Come guardavano».
«Fu Basaglia a spiegarci come fare. Io lo cercai, lui mi disse vieni su. E io andai lassù, al nord estremo». Trieste? «Mi pare. All’ospedale. Era senza camice. Mi spiegò tutto, mi fece vedere tutto quel che stavano facendo. Mi diede coraggio. Sorrideva molto. Scesi a Roma e cominciammo pure qui. Furono 4 anni difficili, dal ‘74 al ‘78, quando fecero la legge. La moglie, Franca Ongaro, quando capiva che non ce la facevamo più, che c’avevamo paura, scendeva. Sarà scesa da sola almeno tre volte, forse quattro». «Dopo, fatta la legge, quello che mi dispiaceva di più era che i pazienti seviziati, quasi uccisi, una volta liberati al Santa Maria della Pietà ci volevano tornare. Gli mancava il manicomio. Lo spazio. Molti di loro lo ricordavano come casa. Non avevano conosciuto altro a parte quell’orrore». Nemmeno un ricordo bello? «Il pane. Il pane del manicomio era il più buono di Roma. Lo facevano alcuni pazienti con il fornaio».
Alberto Paolini ha 89 anni. Al Santa Maria della Pietà a Roma ha passato la vita. Da internato.
Pericoloso per sé e per gli altri fu la frettolosa diagnosi. Gli è costata tre elettroschock. Ricevuto il marchio a fuoco di malato mentale, chiuso a chiave nell’etichetta di depresso cronico, viene spedito ragazzino in un inferno di letti di contenzione. Il suo mondo fatto di silenzi delicati e insondabili equilibri va in frantumi. Alberto Pallotta è il suo grande amico. Al Santa Maria della Pietà era il suo protettore, quello che cercava invano di tirarlo fuori dal padiglione peggiore. Si vedono ancora. Adriano vive a casa sua a Roma. Alberto in una casa famiglia a Borgata Ottavia in un palazzone buio che sembra una galera. Inferriate, scale sporche, cicche che cadono dall’alto sul davanzale. Non aveva nessun bisogno di cure psichiatriche Alberto Paolini. Era solo un bambino povero e molto timido. Un bambino spaventato e intelligente che parlava poco e scriveva poesie. Ha continuato a scriverle nei quarant’anni di manicomio. «Scrivere mi aiutava lì dentro a non impazzire» dice. «Sono nato da una famiglia povera. A 15 anni m’hanno ricoverato nella clinica neuropsichiatrica dell’Umberto I. Dicevano che stavo troppo tempo zitto per essere un bambino normale. Dopo un periodo di osservazione sarei dovuto uscire, ma venivo dal collegio dei salesiani e loro non vollero riprendermi. Era successo che era morto mio padre, mio padre faceva il portiere in un palazzo di Roma. Ero rimasto solo con la mia mamma. Non mi voleva la mia mamma. Diceva che non sopportava la mia voce. Per non sentirmi piangere mi rinchiudeva in uno sgabuzzino. È molto brutto per un bambino sapere che la tua mamma non ti vuole. Poi non so cosa successe, mi mandarono in collegio. I salesiani dicevano che stavo troppo zitto, mi mandarono all’Umberto I per vedere cosa avevo e da lì non vollero riprendermi. Finii così ricoverato all’ospedale psichiatrico. Avrebbero dovuto decidere dopo un po’ di tempo, poco tempo, se ero pericoloso o se potevo essere liberato, ma funzionava così: se entro un mese un parente ti veniva a prendere uscivi, sennò no». «Un giorno il primario mi convocò per una visita. Ero molto emozionato. Sapevo che doveva decidere su di me. Lui mi chiese come ti chiami, che giorno è oggi, quanto fa uno più uno. Io non avevo nessuna difficoltà a rispondere. Poi anni dopo ho saputo che sulla cartella clinica aveva scritto : il paziente risponde con esattezza, ma dà l’impressione di interessarsi poco alle domande. Così mi hanno diagnosticato lo stato depressivo cronico e mi hanno madato al padiglione 6. Io avevo paura. Mi avevano detto che al padiglione 6 facevano l’elettroschock. Mi avevano anche detto che dopo non sei più te stesso e io m’andavo bene così com’ero. Mi ricordo benissimo la prima seduta. Io piangevo e gridavo mamma. La suora diceva al medico: tutto bene dottore, può iniziare».
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