Trojan, l’ultima beffa che cancella la privacy

Ci sono temi su cui il confronto politico rappresenta il termometro della società, del suo stato di salute e, quindi, anche della sua febbre. La giustizia è uno di questi, ancora di più quando si parla di prescrizione e intercettazioni. Non deve sorprendere allora che il dibattito di queste settimane, tornato prepotentemente su questi due temi, sia ampio, plurale e franco. Nessuno può considerare la discussione di questi giorni un intralcio al processo legislativo, tanto più quando la richiesta di approfondimento proviene da voci autorevoli della magistratura e dell’avvocatura che ne sono direttamente interessate. La disciplina sulle intercettazioni, approvata sabato in Consiglio dei ministri e che entrerà in vigore a marzo, dimostra che questo percorso può essere condotto con senso di responsabilità.

Troppe volte in questi anni abbiamo denunciato l’uso distorto delle intercettazioni come clava per la delegittimazione pubblica di persone che magari neanche erano coinvolte nelle indagini. E troppe volte la politica su questo punto è stata ipocrita, perché in quella enorme stortura ci trovava un modo facile per aumentare il consenso. D’altronde, già il fatto che per 18 mesi il precedente governo avesse congelato queste norme, fa capire che senza il Pd probabilmente oggi avremmo una nuova proroga a non si sa quando.

Io resto convinta che quello per cui non può diventare pubblico ciò che non è penalmente rilevante e ha invece a che fare con i contesti, i comportamenti leciti, le idee e i giudizi sia un sacrosanto principio di garanzia liberale. Vedremo se con le nuove norme questo rischio sarà scongiurato o servirà proseguire su questa strada. Ad esempio, mi sembra una mediazione equilibrata l’attribuzione al pubblico ministero del controllo affinché nei verbali non finiscano contenuti offensivi e lesivi estranei ai fini delle indagini. Così come è positiva anche la possibilità per il difensore di accedere alle operazioni captative. Sinceramente, mi sembra molto meno accettabile l’ulteriore estensione dell’uso del trojan. Si prevede che nello stesso procedimento il materiale acquisito possa essere utilizzato anche per reati diversi da quelli per i quali c’è l’autorizzazione all’intercettazione. Stiamo parlando del più invasivo strumento nei confronti di una persona. E molto spesso se ne parla senza tenere conto del serio problema di bilanciamento tra efficienza investigativa e rispetto delle garanzie.

Su questo punto credo che ci sia stato un passo indietro rispetto al testo originario del decreto Orlando del 2017 e immagino che il Parlamento vorrà esprimersi nelle prossime settimane. Va detto però che sulle intercettazioni il Partito democratico ha dimostrato ragionevolezza e responsabilità, accogliendo le osservazioni espresse da alcune procure e avvocatura. Mi chiedo se su prescrizione e durata del processo stia accadendo lo stesso da parte del Movimento 5 Stelle. Qualcuno, anche nella maggioranza, si è stupito che il Pd sollevi forti criticità sulla prescrizione a firma Bonafede e chieda una soluzione equilibrata sulla giusta durata del processo che quella norma non garantisce affatto. Io francamente mi stupisco di chi si stupisce.

Nel gennaio 2019, la legge meglio nota come “spazzacorrotti” ha introdotto il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito, sia esso di condanna o assoluzione. Lo ha fatto con uno strano meccanismo “ora per allora”, e cioè differendo la sua entrata in vigore al 1° gennaio 2020, in modo tale da poter approvare nel frattempo una revisione di sistema del processo penale in grado di garantirne la ragionevole durata. All’epoca il Partito democratico votò contro quella norma, per il merito e per il metodo, sollevando persino una pregiudiziale di costituzionalità, con ottime motivazioni che credo rimangano in piedi.
Infatti, aprire di fatto all’imprescrittibilità dopo la sentenza di primo grado, significa dare un colpo fatale agli equilibri di uno stato di diritto, dove la pretesa punitiva dello stato ha dei limiti e non è una cappa a cui siamo tutti sottoposti fino a che non si dimostri la propria innocenza.

Ma oltre a ciò, questa riforma non risolverà il problema che dice di voler curare, e cioè i tempi del processo, dato che la grandissima parte delle prescrizioni giungono in primo grado, e di queste molte durante le indagini preliminari. Così come le richieste di giustizia delle vittime, e i loro risarcimenti, non saranno soddisfatti meglio, come invece sento dire, dato che l’allungamento prevedibile dei processi interferirà anche sulla celerità delle risposte a chi ha subito un reato o patito un danno. Queste erano le ragioni del nostro no di un anno fa, valide ancora di più oggi. Perché? Semplice. Fra pochi giorni quella norma diventerà legge senza che nel frattempo da via Arenula sia arrivata una chiara proposta organica sul processo penale.

Un anno fa il M5s e il ministro Bonafede avevano spostato in avanti la prescrizione considerando essenziale farla precedere dalla riforma del processo, che ne dovrebbe garantire la durata ragionevolmente breve. Oggi che però sul processo non c’è nulla, la prescrizione resta comunque in piedi. Dove sta la coerenza? Eppure il ministro della Giustizia è lo stesso di un anno fa.