Vincere e convincere, il Milan ha sempre incarnato il bel gioco: il Diavolo in crisi d’identità non dimentichi la sua leggenda

Il Milan ed io siamo venuti al mondo su terre vulcaniche, agli estremi opposti della penisola: io, tra le colate dell’Etna, a Linguaglossa; lui, tra le eruzioni culturali e sociali di Milano. Il destino, che ha un suo bizzarro senso della geografia, ci ha fatti incontrare a metà strada, in Toscana, in un golfo quieto affacciato sull’Elba: Follonica, dove mi ero trasferito a soli 5 anni, e dove l’allora presidente Giuseppe Farina portò la squadra in ritiro. Fu lì, sul finire del 1983, che i miei occhi di ragazzino incontrarono una visione: la forza e l’eleganza di Franco Baresi. Il Rosso e il Nero. Il Capitano. Giocava contro la squadra locale, ma sembrava appartenere a un’altra categoria dello spirito. Finì 3-1 per noi, e in quel momento nacque un “noi” che non mi ha più abbandonato.

Da allora essere milanista non è mai stato semplice tifo: è una questione d’identità, un’appartenenza fondata su un canone estetico, oltre che sportivo, che mi ha accompagnato fin da ragazzo come un sottile privilegio. L’ho compreso appieno col tempo, soprattutto da quando vivo a Roma, immerso in una tifoseria sanguigna come quella giallorossa. È qui che ho percepito quella narrazione, o forse quella benevola auto-illusione, che ci vuole come gli avversari “meno visceralmente odiati” d’Italia. Il motivo, forse, risiede nel fatto che il nostro comandamento non si è mai limitato a un singolo verbo, “vincere”, ma ha sempre abbracciato un’intera filosofia: vincere, convincere e divertire.

L’apoteosi di questa filosofia resta la notte di Atene, 18 maggio 1994. Di fronte c’era il Barcellona di Cruyff, il “Dream Team”, dato per vincente, arrogante nella sua presunzione di impartirci una lezione di calcio. Finì 4-0 per noi. Non fu una partita, fu un manifesto. Una sinfonia perfetta. Una punizione divina. Inflitta con la leggerezza di un colpo di fioretto. Una vittoria talmente iconica che rischia di essere intaccata, quasi per un dispetto del destino, solo dalla perfidia dei cugini interisti, capaci di perdere 5-0 contro il PSG in un’altra finale europea e quasi “rubarci” anche quel record. Ma quella notte resta nostra. Indelebile. Perché, come diceva il nostro grande tifoso Umberto Eco, “il Milan è la squadra più europea d’Italia”.

Il Milan pensa in verticale, non si accontenta della vittoria: la pretende bella! È questa la nostra meravigliosa croce, la condanna che ci portiamo addosso con un misto di orgoglio e sofferenza: una vittoria “sporca”, un 1-0 strappato con i denti, ci lascia comunque un retrogusto amaro. Ci rovina quasi la settimana, perché tradisce il patto fondativo. Tradisce il ricordo dei nostri eroi che non sono mai stati soltanto calciatori, ma rappresentazioni simboliche di un’idea: Baresi e Maldini erano i guardiani supremi. Non semplici difensori, ma custodi di un tempio laico, eleganti e inflessibili. Van Basten e Inzaghi, invece, erano la predestinazione al gol, l’incarnazione stessa del fato. L’olandese era poesia, Pippo prosa fulminante. Uno creava l’arte, l’altro emetteva la sentenza.

Ho amato profondamente tre Milan diversi, quasi fossero tre epoche e fondamentali lezioni di vita parallela, tre sinfonie che hanno insegnato calcio al mondo. Il primo è quello degli Immortali di Sacchi, che con olandesi volanti e pressing asfissiante ha trasformato undici giocatori in un sistema pensante, un’orchestra senza spartito. Il secondo è quello implacabile degli Invincibili di Capello, che ha dimostrato con chirurgica freddezza come il rigore e l’organizzazione potessero dominare il caos. Il terzo è quello galattico di Ancelotti, che ha umanizzato il talento, dimostrando che l’arte può e deve convivere con successo con il pragmatismo. In quei Milan si sono perfezionati i valori e lo stile della tradizione milanista nei comportamenti dentro e fuori dal campo.

E poi? Poi, come canterebbe Jannacci in una melodia malinconica e milanesissima, è arrivata la discontinuità. “Questo Milan che oramai non mi vince più”, o almeno non come prima. La domanda che ogni milanista si pone oggi, con la passione di un innamorato e la lucidità di un azionista, è: cosa siamo diventati? Un esperimento finanziario avvolto nel mistero, una piattaforma mediatica per valorizzare “asset”, o ancora un progetto calcistico? Forse tutte e tre le cose. Ma la vera domanda è un’altra: possiamo ancora essere un simbolo? In un calcio di fondi di investimento, di bandiere usate come watermark sui social e di giocatori-brand, la nostra identità è una questione aperta. L’identikit del tifoso ideale, che questi fondi d’investimento desiderano, ci dipinge come ottimi acquirenti, pragmatici, con meno slanci estetici e un’anima da analisti finanziari dilettanti, intenti a scrutare i bilanci della proprietà con la stessa trepidazione con cui un tempo decifravano la moviola. E noi, di fronte a questo modello, ci aggrappiamo al nostro ‘DNA da Champions’ come a un titolo nobiliare in un mondo che non riconosce più l’aristocrazia.

Perché nonostante tutto, in questo calcio liquido, i simboli restano. A Milanello, la stanza numero 5 è il cuore del club. È il simbolo della leadership, il crocevia dei trionfi leggendari guidati dai più grandi allenatori. È diventata un’eredità non scritta, destinata solo a chi incarna l’anima della squadra. Lì dentro risuona l’etica della disciplina e il dovere, insegnato da Baresi e Maldini, di onorare sempre la maglia. È la prova che il Milan non è solo un conto economico. È una sintesi sportiva, sociale ed estetica. È una strategia che diventa racconto, un’identità che si trasforma in modello. La nostra ossessione collettiva per la “vittoria bella”, nel bene e nel male, insegna a vivere tra la gloria e l’attesa. La sfida per chi oggi guida il club non è solo vincere, speriamo se ne rendano conto, ma rispondere a quella domanda sospesa. Dirci se quella stanza, la numero 5, è ancora il cuore pulsante del progetto o se è diventata soltanto una bella suite per ospiti di passaggio, se vi si forgiano ancora i simboli o si firmano soltanto i contratti. Dirci se possiamo ancora rappresentare il meglio del calcio italiano, europeo e mondiale. Non per il bilancio, ma per la storia. Per lo stile. Per noi. Perché alla fine, come canta Jannacci e spiego a mia figlia, tutto torna lì:
“E allora sarà ancora bello Quando ti innamori Quando vince il Milan Quando guardi fuori”.