I nomi, almeno per il momento, restano rigorosamente top secret. Ma le aziende disposte a unirsi in un consorzio e a investire nello stabilimento Whirlpool di via Argine salgono da cinque a sette. È un piccolo segnale di speranza, quello emerso dall’incontro tra azienda, Invitalia, sindacati e governo che si è svolto ieri nella sede del Ministero dello Sviluppo Economico. Ma è anche un ulteriore banco di prova per la politica che finora ha soltanto alimentato false speranze per gli oltre 340 operai della fabbrica.
Le nuove aziende pronte a contribuire al rilancio dello stabilimento di via Argine sono attive nel settore dell’automotive e in quella della progettazione di smart city. Si aggiungono alle cinque che hanno già manifestato la propria disponibilità e che si occupano della produzione e dell’assemblaggio di sedili, della costruzione di impianti per l’industrializzazione di celle a combustibile, dello sviluppo di progetti di innovazione per l’evoluzione tecnologica delle piccole e medie imprese e dell’erogazione di servizi di ingegneria avanzata per la mobilità. Queste cinque aziende sarebbero pronte a investire circa 87 milioni di euro nella fabbrica di via Argine, ma non è detto che la cifra non possa aumentare sostanziosamente dopo l’ingresso nel consorzio delle altre due società. Il piano di reindustrializzazione, infatti, prevede che il sito venga affidato a un gruppo di imprese in grado di assorbire l’intera forza lavoro disponibile garantendo «unicità di trattamento e di assunzioni», come reclamano i sindacati, a tutti gli operai.
E sarà proprio il consorzio a negoziare con la Whirlpool che, pochi giorni fa, ha sospeso i licenziamenti fino alla metà di ottobre proprio per valutare la fattibilità del piano di reindustrializzazione. Il destino degli operai, infatti, è appeso al calendario di incontri che partirà il 6 ottobre per proseguire l’11 e concludersi il 14. Si discuterà non solo del layout della fabbrica e delle progettualità in campo, ma anche della possibilità di far entrare nel consorzio altre imprese in modo tale da rendere il piano di reindustrializzazione sempre più solido e “blindare” la posizione dei lavoratori. Al momento sembrano più o meno tutti d’accordo: sia la Whirlpool, che si dice pronta «a supportare le persone di Napoli in termini economici e temporali nel processo di transizione», sia i sindacati, pronti a trattare purché le lettere di licenziamento non siano spedite e l’affidabilità dei membri del consorzio sia verificata prima del 15 ottobre.
E il governo Draghi? Al Ministero dello Sviluppo Economico spetterà il compito di vigilare «perché ci siano accordi in tempi chiari». Per la politica, quello della Whirlpool di via Argine è senz’altro un test importante. Per troppi anni, infatti, i dipendenti napoletani della multinazionale americana hanno dovuto fare i conti non solo col progressivo declino del sito ma anche con le chiacchiere degli amministratori pubblici. Quando era ministro degli Esteri, Luigi Di Maio annunciò che la Whirlpool non avrebbe licenziato nessuno ma che, anzi, avrebbe portato in Italia una parte della produzione che aveva avviato in Polonia. È successo? Macché. Successivamente fu Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo Economico ai tempi del premier Giuseppe Conte, a rassicurare operai e famiglie annunciando che il Governo avrebbe trovato di lì a poco un imprenditore disposto a investire in via Argine. È successo? Manco per idea.
La “ciliegina sulla torta” la mise il sindaco napoletano Luigi de Magistris che, invece di monitorare l’andamento dei piani industriali con particolare attenzione alle risorse erogate e all’impatto occupazione, cominciò a parlare di un fantomatico «centro di produzione collettiva di lavatrici tutto italiano» che avrebbe dovuto prendere il posto della Whirlpool in via Argine. Non c’è bisogno di precisare come le parole del primo cittadino siano rimaste lettera morta. Ecco perché adesso il governo Draghi e la politica nazionale e locale si giocano una buona quota di credibilità nel caso Whirlpool. Non si tratta di una vicenda marginale: in gioco c’è il futuro non solo di oltre 340 operai con le rispettive famiglie, ma anche di quell’area orientale di Napoli che, nel corso degli ultimi decenni, è stata suo malgrado protagonista di un drammatico processo di deindustrializzazione.
