Di protezione dei minori online si parla da anni. Convegni, dichiarazioni, linee guida, mozioni di principio: il consenso politico e sociale sembra unanime. Eppure, incredibilmente, sul piano concreto si è fatto pochissimo. Mentre i minori accedono con disarmante facilità a contenuti inadatti – dai social vietati ai più piccoli fino alla pornografia esplicita – le soluzioni restano affidate all’autodichiarazione dell’età o alla buona volontà di genitori spesso disarmati.

Profilo social già a 11 anni

Nel frattempo, i numeri parlano chiaro. In Italia, oltre il 62% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni ha già un profilo social, violando regole formali che fissano il limite minimo a 13 o 14 anni. L’età media del primo smartphone continua ad abbassarsi: un terzo dei bambini tra i 6 e i 10 anni lo usa ogni giorno. Le app di parental control sono poco diffuse (solo il 30% dei genitori le usa), e comunque spesso inefficaci: tecnicamente complesse, facilmente aggirabili, frammentarie. È chiaro: il sistema attuale non funziona. Serve un cambio di paradigma. E serve ora.

Age verification, i due modelli

Esistono due modelli alternativi per affrontare il tema della age verification: uno distribuito, che lascia ai singoli servizi il compito di verificare l’età, e uno centralizzato, basato su un’infrastruttura condivisa – l’app store o il sistema operativo di un device – che fornisce in modo anonimo un’attestazione di età valida a cascata per tutte le piattaforme e i servizi che vi si appoggiano. Il modello distribuito, oggi prevalente, è fallace, costoso, inefficiente. Costringe ogni azienda – anche le piccole e le startup – a costruirsi da sola un sistema ad hoc. Il risultato è una rete disomogenea, piena di falle, in cui basta trovare il punto più debole per aggirare ogni barriera.

Il modello centralizzato, invece, è più sicuro, più economico e più rispettoso della privacy. Non serve raccogliere nome, età o documenti: basta un attestato anonimo, interoperabile, standardizzato. Con un controllo unico, l’accesso a contenuti vietati diventa molto più difficile per i minori, e molto più facile da gestire per i genitori.

E no, mettere il controllo dell’età nelle mani delle big tech non è un rischio per la democrazia o la concorrenza. Il vero rischio oggi non è il controllo, ma la frammentazione. Se ogni Paese europeo, ogni piattaforma, ogni famiglia continua a muoversi in ordine sparso, il risultato sarà un caos normativo insostenibile, che penalizza proprio chi dovrebbe essere incentivato a innovare: le PMI, gli sviluppatori indipendenti, le startup. E il conto lo pagheranno le famiglie, i cittadini, e soprattutto i più giovani.

La protezione dei minori online non può più essere affidata alla buona volontà delle piattaforme o alla destrezza dei genitori con le impostazioni dello smartphone. È tempo di passare all’azione, e farlo con una visione europea, ambiziosa e lungimirante. È tempo di responsabilità: quella delle grandi piattaforme americane – che dominano il nostro spazio digitale – di contribuire in modo equo ai costi di compliance. Perché a pagare non possono più essere i cittadini europei, uno per uno.

Giacomo Lev Mannheimer

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