Non era una persona comune Giulio Giorello e te ne accorgevi ascoltandolo, frequentandolo, discutendo con lui, casomai andandoci a cena. La convivialità e la socialità erano, infatti, il tratto peculiare del suo carattere. La cosa che più ti colpiva era la capacità che egli aveva di rendere interessanti intellettualmente anche gli argomenti più semplici, però senza che tu potessi minimamente giudicare fuori luogo o noiosa la profondità culturale che sapeva profondere nella “civile conversazione”. Era per molti versi, forse quasi tutti, agli antipodi del maestro con cui si era formato e che, pur nella diversità, sempre onorò: quel Ludovico Geymonat che aveva ottenuto a Milano nel 1956 la prima cattedra italiana di Filosofia della scienza, a cui Giorello poi successe nel 1978.

Tanto marxista ortodosso nel senso del materialismo dialettico (il famigerato Diamat) da Accademia delle Scienze l’uno, tanto aperto ai più disparati e “anarchici” esiti dell’epistemologia contemporanea l’altro; tanto chiuso nei recinti della filosofia e delle scienze sociali “forti” il maestro, tanto liberamente scorrazzante sulle vaste praterie della letteratura, dell’arte (la musica di ogni genere soprattutto) e persino delle forme di intrattenimento pop (i fumetti) l’allievo (gustosissimo e coltissimo è La filosofia di Topolino, che scrisse con Ilaria Cozzaglio nel 2013). D’altronde, come Giorello stesso scrisse in una autopresentazione filosofica, sin da piccolo aveva amato il mondo delle fiabe, degli eroi e delle leggende: «la mitologia e la sua controparte scientifica, la cosmologia» non avevano mai smesso di attrarlo (Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito è un suo coltissimo libro del 2004). Sarà per questo che amava tanto la verde Irlanda, terra di elfi e gnomi, o anche forse perché lì fecero le loro prove tanti di quegli spiriti eretici e persino eccentrici, liberi pensatori, che tanto vicini erano al suo spirito.

L’alchimia e la magia rappresentavano per lui un po’ questo, la rottura delle barriere erette dai dogmi delle Chiese di ogni tipo, la base di quel metodo scientifico che per lui doveva divenire il cardine della stessa libertà politica, civile, e soprattutto individuale (Di nessuna chiesa: la libertà del laico, 2005). Fu per questo che il marrano Baruch Spinoza, con la sua Ethica more geometrica demonstrata, in fuga dai poteri costituiti di mezza Europa, divenne per lui il simbolo dell’unione indissolubile della scienza e della filosofia con la libertà (Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con Dario Antiseri, 2008) E fu così che, finiti gli anni del liceo Berchet a Milano, si avvicinò alla filosofia, sempre seguendo la linea dei “pensatori irregolari” della modernità: gli illuministi ribelli e federalisti nordamericani come Thomas Paine e Thomas Jefferson, i libertini francesi prerivoluzionari fino all’“eversivo” Marchese De Sade; gli utilitaristi anticonformisti alla Jeremy Bentham e soprattutto alla John Stuart Mill, l’autore del libro Sulla libertà che era un altro dei suoi riferimenti costanti; il logico e matematico ma anche anarchico e pacifista Bertrand Russell, che studiò in maniera non banale; i letterati filosofi come il nostro Italo Svevo e soprattutto il suo maestro dublinese James Joyce; fino al “fascista” Ezra Pound, il suo poeta preferito.

Si può dire che, pur appartenendo per ambiente e istinto all’alta borghesia progressista milanese, Giulio Giorello fosse quanto di più lontano si possa immaginare dal “politicamente corretto” (oltre che dallo “scientificamente corretto”, ovviamente). Era però troppo scettico e disincantato per fare anche della “scorrettezza” un dogma o un habitus. Il risultato era quella colta e ironica, nonché raffinatissima, “leggerezza” che pure contraddistingueva la sua personalità. Anche lui era uno “scettico spensierato”, come ebbe a definire un altro dei suoi Maestri, lo scozzese David Hume: amante della vita e non disperato e pessimista come il Leopardi che pure apprezzava come filosofo naturalista. Dopo quella in Filosofia nel 1968, prese, su suggerimento di Geymonat, anche la laurea in Matematica tre anni dopo. Insegnò Geometria a Pavia, Matematiche complementari a Catania e nel 1978 successe appunto a Geymonat sulla cattedra di Filosofia della scienza a Milano.

Pubblicò in quegli anni libri che gli valsero nella sua disciplina, e in quelle affini, una supremazia di fatto in Italia: Il pensiero matematico e l’infinito, 1982; Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, 1985; Filosofia della scienza, 1992; Introduzione alla filosofia della scienza, 1994; La filosofia della scienza nel XX secolo, con Donald Gilies, 1995. Intanto, nei suoi frequenti viaggi in Gran Bretagna, soprattutto a Oxford, aveva preso familiarità con il razionalismo critico di Karl Raymund Popper e con le varie epistemologie postpopperiane, soprattutto l’“anarchismo metodologico” di Paul Feyerabend, della cui spregiudicatezza intellettuale era a dir poco affascinato. Il metodo scientifico a cui Giorello fa rifermento si precisò allora sempre più, in una direzione lontana dal newtonianesimo e dalla scienza protomodena, come fabbilista. La fantasia, la creatività eccentrica, l’innovazione spiazzante, il dubbio, l’errore, l’imperfezione, il caos (che aveva appreso direttamente da Réné Thom), l’errore (a cui è dedicato anche l’ultimo libro, scritto con Pino Donghi e uscito qualche mese fa) diventano sempre più i perni attorno a cui ruota ormai la sua visione del mondo.

Il suo naturalismo ed evoluzionismo lo portava a essere ateo e relativista, ma era troppo amante della libertà e attento alle sfumature per non rendersi conto che anche l’ateismo poteva diventare, in mano poco accorte, un dogmatismo più intollerante di quelli clericali. Fu forse per questo che divenne amico e dialogo con il cristiano (anch’egli liberale e relativista) Antiseri e con il grande teologo monsignor Bruno Forte con cui scrisse nel 2006 Dove fede e ragione si incontrano?. Quanto al relativismo, egli lo faceva proprio ma distinguendo nettamente il relativismo culturale da quello etico. Credeva, infatti, fermamente nel valore assoluto e interculturale dei diritti civili e delle libertà occidentali, a cominciare da quelle di pensiero ed espressione.

Lo stesso rischio poteva, d’altro canto, per lui assumere un’altra delle idee centrali del suo universo di pensiero: quella di laicità. In ogni caso, Giorello era un liberale nel preciso senso che aveva un gusto innato per la libertà, che non banalizzava mai. In qualche modo, essa, per lui, coincideva con l’idea di amore. Non a caso, il passo filosofico che teneva più caro, come ebbe a dire, è quell’aforisma di Umano, troppo umano in cui Friedrich Nietzsche definiva l’amore il «capire e rallegrarsi che un altro viva, opera e senta in modo diverso e contrario al nostro». Come dire: tutto il contrario del fanatismo. E questo è il lascito più importante che Giorello ci lascia.