Con l’ennesima mossa del cavallo, sul Foglio di ieri Goffredo Bettini chiede al Partito democratico di schierarsi sul referendum sulla giustizia proposto da Lega e Radicali per non farsi scippare la bandiera del garantismo dalla destra salviniana. Bettini afferma che i referendum in questione sono l’occasione per rimeditare il rapporto tra partiti e società. Posizione condivisibile. È dal 1989, anno di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che non si registra una corrente di opinione così nutrita di garantisti tra politici e commentatori. Quel codice nasceva all’insegna delle garanzie e del superamento del modello accusatorio, ma finiva con il produrre l’effetto opposto. Il dibattito mediatico-giudiziario, per esempio, compiva un netto salto di qualità attorno alla nuova figura dell’indagato che, per una sorta di eterogenesi dei fini, dalle garanzie derivanti dalla sua condizione traeva e trae tuttora un vantaggio assai minore dei danni, gravi e irreversibili, che riportava e continua a riportare dopo essere stato sbattuto in prima pagina come il più classico dei mostri.
Sono note le colpe della cosiddetta sinistra riformista in questa vicenda e non sono mancati i mea culpa. Il Pd non sempre è riuscito a tenere fede al valore del garantismo, a partire dal trattamento riservato ai propri militanti o dirigenti oggetto delle “attenzioni” della magistratura. Viceversa, forse, un po’ troppo spesso ha flirtato con la magistratura (vedi il libro di Sallusti e Palamara) candidandone non pochi esponenti, per lo più pubblici ministeri assai esposti dal punto di vista mediatico. L’elenco delle colpe di omesso garantismo è lungo e, per forza di cose, investe soprattutto i contesti meridionali perchè, tra i “simpatici” espedienti che la magistratura adotta in modo sistematico per esercitare il proprio potere in modo più incisivo, vi è la contestazione del più grave dei reati tra quelli astrattamente contestabili: quello della collusione con la camorra, indispensabile per aumentare i tempi delle indagini e legittimare la carcerazione preventiva, con conseguente e inevitabile gogna mediatica. Certo, resta la possibilità, in un secondo momento, di stralciare posizioni, mutare il reato contestato, archiviare il fascicolo senza rinviare a giudizio o celebrare un lento processo. Ma intanto il danno è fatto.
Davanti a questa fenomenologia è mancata una presa di posizione chiara da parte del Pd e troppe volte gli iscritti, finiti nel mirino delle Procure, sono stati scaricati dal partito per ritrovarsi isolati, salvo poi essere scagionati da qualsiasi accusa. Basti pensare, per limitarci alla Campania, ai quasi venti processi affrontati da Antonio Bassolino, alla dolorosa vicenda che ha colpito l’ex consigliere regionale Enrico Fabozzi, all’inchiesta Cpl che portò all’arresto dell’attuale europarlamentare Giosi Ferrandino e al caso di Antonio Carpino, penalista non ricandidato a sindaco di Marigliano perché indagato per gravi reati. In tutti casi si è registrato il “balbettio” – o addirittura il silenzio – dei dirigenti provinciali e regionali del Pd. Ma il garantismo non è – alla Luigi Di Maio – prendere atto del fatto che l’accusato abbia saputo dimostrare la propria innocenza. Perciò sarebbe il caso che Bettini spiegasse come si concilia la sua nobile posizione con la linea politica basata sull’alleanza tra Pd e M5S. È chiedere troppo?
