Riforme soft e niente referendum
Letta si allinea a Travaglio sulla giustizia: sembra uno scherzo, ma è proprio così
Avete presente quelli che vi dicono: “no, no, io non sono razzista, tant’è vero che ho un amico africano, però…”? Beh, dopo il “però” non avete più bisogno di spiegazioni: capite benissimo che quello è un razzista fatto e finito. Enrico Letta ieri, per la prima volta – credo – ha parlato di giustizia, e ha fatto esattamente come quell’amico dell’africano. Ha detto “Io sono contro il giustizialismo, però… anche contro l’impunitismo”. C’è bisogno d’altro?
Sì, ha anche spezzato una lancia contro i referendum sulla giustizia promossi dai radicali e approvati dalla Lega, sostenendo che promuovere i referendum è come gettare la palla in calcio d’angolo. Dice che si perde tempo e invece le riforme sono urgenti. Ok, facciamo le riforme. Quali? Letta ha detto che gli scandali che stanno travolgendo la magistratura “fanno rabbrividire” e quindi una riforma è fondamentale, e “le attuali forme di autogoverno della magistratura non funzionano”. Ok di nuovo: quindi – uno pensa – sta per proporre un sistema di governo e di controllo della magistratura che chiuda il capitolo del potere autoreferenziale e incontrollato e in mano alle correnti. Macché. Letta propone nuove forme di autogoverno della magistratura. Che tipo di nuove forme? Quelle che garantiscono – dice Letta – un autogoverno più equilibrato. Sembra uno scherzo, ma è proprio così.
Si chiama riforma gattopardo, o riforma zero. E poi – dopo queste osservazioni e dopo gli strali contro l’iniziativa referendaria – arriva quella osservazione contro l’impunitismo che fa venire la pelle d’oca. Sembra Bonafede.
Vogliamo riassumere tutto questo ragionamento del segretario del Pd? Diciamo così: la magistratura fa schifo ma è meglio lasciare le cose come stanno. L’unica correzione ragionevole è una piccola modifica del metodo di elezioni del Csm. Pari pari la tesi di Marco Travaglio, cioè dell’ultimo leader rimasto nel firmamento dei 5 Stelle dopo la caduta di Di Maio, di Grillo, di Di Battista, di Davigo, di Ardita, di Gratteri, di Rousseau, e ora persino del povero Conte, esautorato da Casaleggio e da un avvocato-pastore, e finito quasi nel dimenticatoio.
E forse è proprio questa la ragione vera delle dichiarazioni di Letta, che schiera il Pd su posizioni organicamente e orgogliosamente giustizialiste: l’obbligo di salvare il rapporto coi 5 Stelle. La nomina di Letta a furor di partito al posto di Zingaretti aveva fatto sperare a molti, sul fronte liberal, la fine della subalternità del Pd ai grillini. Il cambio tra Zingaretti e Letta doveva significare questo: basta con lo slogan suicida “Conte o morte”. Probabilmente la speranza di una svolta fu una pia illusione. Letta è ben determinato a non mollare di un centimetro sull’idea dell’asse di ferro coi resti dei 5 Stelle. E per allearsi coi 5 Stelle, ovviamente, bisogna rinunciare a qualunque idea liberale, vista come l’acqua santa dal diavolo grillista, in particolare sulla giustizia. La prima battaglia da fare diventa l’opposizione ai referendum.
E quindi la scelta di lasciare com’è la carcerazione preventiva, di non toccare la carriera dei magistrati, il rapporto inquinato con la politica, di rinunciare alla separazione delle carriere, alla responsabilità civile e tutto il resto. E, sostanzialmente, anche di non toccare il Csm e il correntismo. Questo è lo stato dell’arte. Difficile da smuovere, se non inizia una vera e propria rivolta nel partito democratico. Possibile che un partito delle dimensioni e delle tradizioni del partito democratico si lasci trascinare, senza reagire, alla coda dei qualunquisti e delle posizioni più reazionarie?
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