Il garantismo amorale di Grillo («Ma se vieni stuprata, poi vai a fare kitesurf?») complica il discorso sulle alleanze con un partito che con Letta ha abbracciato proprio la questione di genere come un tema a forte carica simbolica. L’attacco familista del leader del maggior partito italiano alla vittima (dall’uno vale uno al quattro vale una?) e alla funzione della magistratura (dall’abolizione della prescrizione a 8 giorni come tempo inaccettabile per una denuncia?), ripropone però un tema che ha una valenza più generale (la questione giustizia in Italia) e che il grillismo ha sempre cavalcato con una vocazione demagogico-repressiva.

In tutte le democrazie contemporanee sono presenti tracce di populismo penale. E anche la letteratura è piena di saggi dedicati al “penal populism” che insegue legge e ordine scagliando le paure contro la mangiatoia delle élite. In Italia però il populismo penale ha un significato fondativo, di sistema e non semplicemente letterario. È anche su di esso che trent’anni fa si è edificata la cosiddetta Seconda repubblica. Il connubio procure-media, manette e monetine, definì un potente e irregolare attore destituente che in una crisi sistemica stravolse soggetti politici, istituti, regole, garanzie. La lotta alla corruzione, con la resa dei conti con la partitocrazia, produsse atti e legislazioni eccezionali che cancellarono le stesse innovazioni contenute nel fresco codice di procedura penale rivisitato nel 1989 per rafforzare il profilo delle garanzie e transitare dal processo inquisitorio al processo accusatorio. Per “rivoltare l’Italia come un calzino” la magistratura inquirente più attiva come leva anti-sistema operò con l’onda del sostegno popolare una conversione radicale che travolse le aperture garantistiche dell’89 restituendo nella procedura una influenza, ritenuta da molti esorbitante, al pubblico ministero.

Tutto questo avvenne con il supporto dei media e della saggistica più influente. E Galli della Loggia nei suoi editoriali del periodo esaltò più di altri la rottura necessaria contro “l’illegalità finanziaria del sistema politico”. Contro “i partiti combriccole di malandrini” inneggiava all’azione giudiziaria e alle sue forzature procedurali al punto che le risultanze delle inchieste non avevano alcun bisogno di “aspettare che i fatti venissero accertati da una sentenza”. La sua convinzione (19 giugno 1993) era di stampo marcatamente giustizialista. “È già molto se, dopo gli estenuanti e annosi riti giudiziari, gli indulti, le amnistie, i patteggiamenti, e gli arresti domiciliari, alla fine si riesce a mandare in galera qualcuno per un lasso di tempo non proprio ridicolo». Quando a Milano definirono il teorema inquisitorio, per cui il carcere è un valido strumento di confessione o di chiamata in correità che legittima solo dopo l’ammissione di colpa l’apertura dei cancelli, gettarono le fondamenta di una repubblica a fondo populista e illiberale. La rottura con i paletti dello Stato di diritto, con la separazione dei poteri e il primato della norma positiva, si ebbe in maniera simbolica quando davanti agli schermi dei telegiornali il Pool milanese illustrò un documento ufficiale che conteneva “opinioni diametralmente opposte al senso dei provvedimenti adottati”.

Rivolgendosi in maniera immediata al popolo, per censurare l’autoassoluzione di un ceto politico che riduceva i tempi della carcerazione preventiva, la procura si costituiva a contro-potere che operava pubblicamente in quanto organismo, e non in qualità di legittime opinioni di singoli magistrati. Non impugnando il testo dinanzi alla Consulta secondo la grammatica del costituzionalismo, i magistrati preferirono presentarsi in video per protestare contro una iniziativa legislativa osteggiata (“che l’opinione pubblica non avrebbe gradito”). Con la censura etico-politica dei partiti “davanti al popolo italiano”, la procura (da autentico contropotere nello spazio vuoto della situazione di eccezione) contribuì a riscaldare un clima di opinione che indusse Scalfaro a non firmare il decreto Conso (sollecitato anche da un Martinazzoli poi dubbioso) che depenalizzava i reati minori contenuti nell’illecito finanziamento ai partiti.

Non c’è articolo della Costituzione più calpestato nel corso della Seconda repubblica che il numero tredici, quello che più di ogni altro sviluppa una moderna cultura garantista, ed è stato scritto dalla penna verde di Togliatti. Proprio il realista totus politicus ha formulato in prima persona i principi dell’habeas corpus riconosciuti dalla Carta. Si tratta di un articolo fondativo o norma di principio che nel suo primo comma (“la libertà personale è inviolabile”) rivela il passaggio dallo Stato di diritto (oggetto di analisi del positivismo giuridico di impianto statualistico) allo Stato costituzionale (ricorso a regole che conferiscono il primato alla libertà rispetto all’organizzazione del potere). Uno dei maggiori storici del costituzionalismo, Maurizio Fioravanti, lo descrive come «forse il migliore e più chiaro esempio che si possa formulare di produzione di regole sulla base di principi».

Non si tratta di una semplice reazione suggerita dalla fresca memoria dello Stato autoritario ma di un ribaltamento teorico del nesso libertà-autorità (la libertà come prius rispetto al potere). Le norme di principio sono anch’esse norme giuridiche, non semplicemente etiche, e nel quadro del primato della legge si esercita la funzione giurisdizionale per giustificare ogni restrizione della libertà personale, per la determinazione della durata massima della custodia cautelare prima della sentenza. Contro questi principi garantistico-libertari della costituzione si abbatterono nel 1993 le riprese Tv con Enzo Carra trasportato con le catene ai polsi per la lieve accusa di falsa testimonianza (Veltroni, in nome dei semplici anch’essi trattati senza tante storie con il ferro ai polsi, ebbe da ridire per “la ribellione perché un uomo pubblico compare in manette”).

Sempre sulle garanzie dell’articolo 13 si scagliano in tempi più recenti le leggi illiberali varate dal governo gialloverde nel 2018 e vendute con la grammatica del populismo penale come “bastaimpuniti”, “spazzacorrotti”, fine pena mai. Il fatto che “l’elevato” che comanda i Cinque stelle esiga oggi un garantismo selettivo-familiare rivela la pochezza degli eroi dell’antipolitica. Ma questa miseria dei giustizialisti anti-partito non libera di per sé la Repubblica dalla pericolosità del populismo penale che da trenta anni è capace di trovare sempre nuovi interpreti, uno più screditato dell’altro.