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“Après moi, le déluge”: il nuovo motto della politica italiana

Avvocato e scrittore
“Après moi, le déluge”: il nuovo motto della politica italiana

Non s’è ben capito se dobbiamo rallegrarcene o deve essere motivo di preoccupazione.

Après moi, le déluge! disse Louis XV a Madame de Pompadour e potremmo ripeterlo oggi. Non certo riguardo al décolleté  di qualche bella cortigiana con tanto di seducente cicisbeo sulle pieghe delle labbra, piuttosto riferito allo sfascio del sistema politico e nel senso che è stato dato alla storica frase nel lessico italiota, della serie “che me frega di quello che vi succederà, fate quello che c… vi pare”.

E forse ci sarebbe davvero da rallegrarsi, specie per chi nutre una inguaribile nostalgia per la prima repubblica e non aspetta altro che vedere i miasmi della seconda, già diventata terza, disperdersi nel vento dopo il suo ultimo rantolo.

Ci sarebbe davvero da gioire per chi non ha sopportato quello che la politica ci ha dato dal 1994 ad oggi a partire dal neo-cesarismo di berlusconiana memoria che, ribaltato il ruolo partito-leader, portava Re Silvio a celebrare sé stesso non partecipando, da Presidente del Consiglio, ai dibattiti parlamentari ed entrando in aula solo alla fine, quando gli toccava intervenire per le tradizionali repliche del premier, per compiacersi dei cori da curva sud che le sue milizie intonavano al grido di Silvio, Silvio!

E il passo fu breve. Il dichiarare la sostanziale inutilità del partito, in quanto mera struttura per l’affermazione del leader, è stata una concezione del leaderismo che ha via, via ingenerato un disprezzo del parlamento, che è composto proprio dai partiti, considerato più uno strumento di intralcio alla azione del premier che un organo costituzionale deputato alla legiferazione e al controllo dell’attività dell’esecutivo.

E, sempre in nome del “non disturbare il manovratore”, fu la stessa concezione che ha portato alla abolizione delle preferenze e alla nomina di deputati (per tenerli sotto scacco) e poi ai vari tentativi di trasformare la politica parlamentare italiana in un bipartitismo perfetto per eliminare i partitini piccoli, visti non come espressione del pluralismo democratico ma solo come un fastidio per chi comandava.

E poi questa sciagurata epoca trentennale, più reietta del ventennio, sull’abbrivio di questo disprezzo del parlamento, trasformatosi poi, nella coscienza collettiva, in un disprezzo della politica erta al rango di casta.

Ha dato, infine, il fiato alle spinte populiste e ci ha costretto ad assistere agli spettacoli indecenti delle scatolette di tonno o delle magliette con le scritte come se Montecitorio, o Palazzo Madama, fossero le ultime file del torpedone che porta la IIIC in gita scolastica piuttosto che le aule solenni deputate a celebrare la sacralità delle funzioni parlamentari.

E già, sacralità! E per favore non vi stupite, non riteniate il termine eccessivo o roboante, perché della venerabilità del parlamento ne riceviamo ancora oggi testimonianza sin dagli echi della antica Roma quando, a partire dalla cacciata di Tarquinio il Superbo e per più di mille anni, ne ha riconosciuto il ruolo centrale e che anche dopo la caduta della repubblica ne ha conservato l’autorevolezza anche nei confronti degli imperatori.

E fu quella stessa sacralità che a partire dal 1300 trasformò la corona di Albione in una monarchia parlamentare e alla quale qualunque monarca inglese, Enrico VIII compreso, non è mai riuscito a sottrarsi, unico stato europeo che non scivolò nella deriva della monarchia assolutista di stampo francese dominante a quell’epoca.

Ed è sempre la stessa sacralità che determinerà la caduta di Trump resosi, agli occhi degli americani, reo del più grande sacrilegio mai esistito nella storia dell’U.S.A. nell’aver ispirato quella becera invasione di bifolchi cornificati che violarono le stanze del Campidoglio.

Una sconsacrazione delle aule parlamentari dunque che segna il marchio di questa epoca e che non è solo il delitto di una sola parte politica perché, in certi passaggi, ha beneficiato della complicità di una certa sinistra che evidentemente pensava di essere più furba dell’avversario e che ha aderito ad una serie di cambiamenti nella speranza di avvantaggiarsene.

A partire da D’Alema che fece votare al PDS la legge Mattarella che aboliva le preferenze, per passare attraverso Veltroni che nel 2008 inauguro la stagione della vocazione maggioritaria del P.D., per finire a Letta & c. che hanno votato a favore della riduzione dei parlamentari.

Una serie di scelte che a dispetto della vocazione, che le sarebbe dovuta essere naturale, per una conservazione della composizione pluralista del sistema democratico, hanno portato la sinistra a coltivare sogni oligarchici.

“Ma quelli erano i riformisti, che la pensavano così” potrebbe dire qualcuno guardando al desiderio di conservare una democrazia plurale, e ha ragione, ma questa della profonda differenza tra gente di sinistra e gente riformista (e socialdemocratica) è un’altra storia di cui parleremo la prossima volta.

Resta che la sinistra, quella che aveva voti, potere ed eletti, quella che contava fu complice dello sfascio.

E quindi oggi, che leggiamo che le accise salgono, che i pedaggi salgono, che i costi della vita salgono, che la difficoltà economiche degli italiani salgono a dispetto dei proclami, delle esibizioni di efficienza, delle sparate di Meloni, Salvini & partner e che sempre oggi, a un orizzonte neanche tanto lontano, si intravede un disastro per il paese ci sarebbe da sorridere per chi come noi non vede l’ora di togliersi tutta questa gente di torno, dal banco più a destra di Montecitorio a quello più a sinistra.

Ma poi c’è l’altro piatto della bilancia e se è vero che, come dice il mio illustre concittadino Ovidio Nasone, la rinascita nasce dal “caos”, e non prescinde da esso, è pur vero che nel day after non si sa chi arriverà vivo.

Certamente, e piuttosto, sarebbe auspicabile un recupero di certi valori, di un certo senso della dignità, di una certa solennità delle sedi istituzionali attraverso una crescita culturale della classe politica ma anche del popolo italiano. Quella dignità e quei valori che abbiamo conosciuto con la Presidenza del Consiglio di De Gasperi, quelle che abbiamo annusato con gli interventi appassionati di Nenni e Saragat, quelle che abbiamo percepito con l’amnistia promulgata da Togliatti, quelle che successivamente ci avvolse negli anni del piano casa, dello statuto dei lavoratori, del divorzio e che ascoltammo dalle parole di Nenni, Craxi, Andreotti, Moro, e chiunque altro vogliate aggiungere.

Una solennità che non era un vezzo, non era una vanità, non era un orpello stucchevole era il simbolo delle istituzioni ma anche il sintomo di una buona politica che faceva e che sapeva fare e che oggi, a quanto pare, comincia a essere rimpianta.

Sarebbe un bene per l’Italia e per il suo popolo che la politica possa ritrovare attraverso il recupero della dignità del suo ruolo anche la capacità di saper fare.

Ma il timore è che alla fine possa aver ragione Marx che, quando nella sua “Opera Summa, Il Capitale” rilanciò l’aforisma Après moi, le déluge, lo eresse a motto del capitalismo che non si cura della salute e del benessere del lavoratore ma guarda solo al suo profitto. Poi magari fu smentito dalla storia e dai suoi epigoni, però all’epoca aveva ragione.

E così forse sarà per costoro che occupano i palazzi del potere, questi “neo-capitalisti” della politica italiana contemporanea: “che me frega di quello che vi succederà, fate quello che c… vi pare”.

Appunto: Après moi, le déluge.