L’autonomia differenziata è una questione seria: è dal 2001 che la politica non partoriva una legge attuativa dell’art. 116 della Costituzione per come modificato dalla legge Cost. 3/2001 (riguardo al Titolo V).
Ad oggi, il Parlamento ha emanato la legge n. 86/2024 titolata “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
Detta legge, con tutta evidenza, non collide con la riforma del Titolo V del 2001 poiché non fa altro che dare sfogo, in una norma ordinaria, a quel che prevede l’art. 116, co. 3, della Costituzione stessa ovverosia che “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Quindi, dal punto di vista formalmente costituzionale, la legge approvata in materia di autonomia differenziata non toglie alcunché a ciò che è già previsto dalla Carta fondamentale italiana ed anzi tenta di armonizzare il procedimento di maggiore autonomia che le Regioni possono avviare in accordo con lo Stato centrale (per capire il pregresso vedasi esempi di Emilia Romagna e Veneto con gli accordi fatti col Governo Gentiloni).
Ma tra buona volontà e metodo politico-legislativo c’è un abisso.
La legge 86/2024 si presenterebbe parzialmente incostituzionale (a parere di chi scrive) nella misura in cui violerebbe il limite dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione.
L’art. 3, infatti, prevede una “Delega al Governo per la determinazione dei LEP ai fini dell’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale – sulla base dei principi e criteri direttivi di cui della legge di bilancio n. 197/2022 (articolo 1, da comma 791 a 801-bis).
Dividiamo, pertanto, l’analisi sul tema in due parti: una relativa alla legge approvata ed un’altra riguardo al referendum abrogativo eventuale.
A) RIGUARDO ALLA LEGGE SULL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
In base alla letterale scrittura della disposizione in questione sorgono, palesemente, tre problemi:
PUNTO a1.
Per garantire i LEP nelle materie di ampliamento occorre rivedere completamente il sistema di ripartizione finanziaria delle regioni. Motivo per cui il parametro dei costi standard non sarebbe sufficiente dal momento che, ad esempio, tale impegno di spesa può variare da regione a regione in virtù dei costi di produzione, bandi, appalti, appalti (vedasi direttiva Bolkestein UE), ecc.
Morale: se autonomia differenziata vuol dire maggiori livelli di autogestione dei territori, il criterio del costo standard potrebbe essere un vincolo subdolo ed incostituzionale dal momento che violerebbe il principio di parità di chance che è insito nell’art. 3 della Costituzione.
PUNTO a2.
Delegare il Governo per la determinazione dei LEP (nelle materie oggetto della legge 86/2024) significa delegittimare il potere legislativo concorrente delle Regioni che, nell’ambito della loro pseudo-autonomia (differenziata), non si caricherebbero di alcuna responsabilità politico-costituzionale dinanzi alle eventuali deliberazioni interne le quali, loro volta, potrebbero violare diversi principi costituzionali senza potersene declarare l’illegittimità costituzionale: ad esempio, per “conflitto di attribuzione” con il potere centrale. Quest’ultimo dovrà aggiornare i LEP e le Regioni saranno tenute all’osservanza come prescrive il comma 11 della legge 86/2024 ovverosia “la Regione e gli enti locali interessati sono tenuti all’osservanza di tali LEP nel rispetto dell’articolo 119, quarto comma, della Costituzione”. Da qui è deducibile che non potrebbe originarsi alcun conflitto costituzionale nel senso classicamente inteso; quindi le ipotetiche violazioni sui LEP sarebbero di mera “funzione” e parallela gestione amministrativa dei fondi (di riflesso solo incidenti sulla norma ordinaria e non sulle competenze costituzionali).
PUNTO a3.
“L’osservanza” voluta dal legislatore nel comma 11 citato sta a significare che secondo l’art. 119, ultimo comma, della Costituzione “Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio. È esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti” con l’ulteriore appunto che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Tutto ciò significa che il famoso “fondo perequativo” non appianerebbe alcuna diversità concretamente riguardo alla sostenibilità dei LEP ed alla loro omogenea garanzia di effettività su tutto il territorio italiano dal momento che, per rispettare il principio di non indebitamento, occorrerà che tutte le Regioni partano dalla stessa condizione (infrastrutturale, economica, finanziaria e di PIL).
La ragione di tale criticità evidenziata risiede anche in un altro principio che, nativizzato con la famosa riforma del Titolo V, ha invertito il rapporto del “dare” da parte dei territori verso lo Stato centrale erariale: si chiama regime “concorrenziale-competitivo” in sostituzione del precedente sistema “contributivo-cooperativo” classico.
Infatti, Regioni ed Enti locali “concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”. La traduzione politico-giuridica di tale espressione, incastonata nel sistema di norme finora richiamato, porta le Regioni con maggior PIL nominale a versare diversamente dalle Regioni a maggior PIL percentuale ed ancora diversamente rispetto a quelle con PIL reale (il tutto valendo anche al contrario).
Sorge, pertanto, altra violazione del principio di parità di chance in termini di sviluppo economico dei territori che si vorrebbe calmierare con un fondo perequativo e con risorse aggiuntive che, tuttavia, potrebbero incorrere in altra violazione: proprio quella competitiva tra Regioni.
Allora, si faccia un po’ di coraggio e chiarezza: si dica che si vuole un sistema federalista puro così da armonizzare l’impianto costituzionale e tutte le norme collegate.
Diversamente, il Titolo V della Costituzione e la legge sull’autonomia differenziata entrata in vigore sono pezzi di un puzzle fatto molto male e rischioso per la tenuta sociale del Paese.
B) IL REFERENDUM ABROGATIVO
“Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione?”
Questa è la domanda del quesito referendario proposta agli italiani per far cessare gli effetti della legge sull’autonomia differenziata appena approvata dal Parlamento a giugno scorso.
Detto referendum è motivato, come riportato sul sito del Ministero della Giustizia, dal fatto che “L’approvazione della Legge sull’autonomia differenziata è un grave attacco all’impianto costituzionale del nostro Paese. Nel proporre differenti livelli di autonomia tra le Regioni a statuto ordinario, divide l’Italia e danneggia sia il sud che il nord, impoverisce il lavoro, compromette le politiche ambientali, colpisce l’istruzione e la sanità pubblica, smantella il welfare universalistico, penalizza i comuni e le aree interne, aumenta la burocrazia e complica la vita alle imprese, frena lo sviluppo. Per tali ragioni l’abrogazione della legge si rende necessaria ed è a difesa dell’unità del Paese”.
Di tutta evidenza emergono, anche in questo caso, diverse perplessità sulla bontà giuridica e tecnica dell’operazione referendaria per una serie di motivi.
PUNTO b1.
Anzitutto si porrebbe un problema di ammissibilità tout court atteso che la legge 86/2024, nell’essere una norma di attuazione costituzionale, si esplica come longa manus di una legge di bilancio ovverosia la n. 197/2022 (o almeno lo fa parzialmente riguardo ai LEP ed alla loro sostenibilità economico-finanziaria).
Qui sorge il contrasto con l’art. 75 della Costituzione che prevede l’esclusione di qualsivoglia referendum abrogativo in materia tributaria e di bilancio stesso.
Sul punto la Corte Costituzionale, con sen. 16/1978, ha affermato che “non é sostenibile che siano sottratte al referendum abrogativo tutte le leggi ordinarie comunque costitutive od attuative di istituti, di organi, di procedure, di principi stabiliti o previsti dalla Costituzione”, salvo che non si tratti di legge “costituzionalmente obbligatorie” od a contenuto costituzionalmente vincolato.
Ebbene, apparentemente, qualora si uscisse dallo schema dell’inammissibilità del quesito referendario per non attinenza al divieto stabilito dall’art. 75 della Costituzione (materia di bilancio o tributi), ci sarebbe da stabilire se la norma 86/2024 sia una sorta di attuazione obbligatoria o vincolata.
Ovviamente a tale questione darà risposta la Consulta (entro il 20 gennaio) secondo la legge 352/1970.
Tuttavia, la perplessità si indirizza su una valutazione: salvo alcune sfumature e dettagli (tipo i costi standard dei LEP), si tratterebbe di una norma parzialmente a contenuto obbligatorio (vedasi art. 116 ultimo comma Cost.) e parzialmente a contenuto vincolato (ad esempio, le materie di competenza regionale ex art. 117 Cost.).
Ciò significherebbe che il referendum, laddove non inammissibile perché non riguardante materia di bilancio o tributi in senso stretto, potrebbe essere comunque inammissibile perché proposto senza un quesito secondario oppure detto “di riserva”.
Sotto quest’aspetto valutativo, il referendum, se approvato, porterebbe il sistema ordinamentale italiano al punto di partenza: non attuando la Costituzione stessa sulla materia dell’autonomia differenziata (si badi bene, cosa diversa dal regionalismo legislativo).
PUNTO b2.
Dal punto di vista tecnico, sia la riforma che la proposta referendaria di abrogazione, paiono discutibili perché la prima è destinata a ingolfare l’Italia di particolarismi inutili mentre la seconda non cambierebbe lo stato delle cose.
In questo dualismo esasperante, l’alternativa vera per migliorare il Paese e rispettare la Costituzione manca del tutto dall’offerta politica “contraltare”.
Peraltro, ad onor di storia costituzionale, chi oggi vuole abrogare la riforma è la stessa compagine dell’arco politico che l’ha generata nel 2001.
Chi, invece, ha partorito la riforma 86/2024 non può pensare che i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali siano garantiti dai territori tramite i LEP (essendo livelli di base), essendoci lo sbarramento costituzionale dell’art. 117 lett. M. (cosa diversa dall’art. 116), così lasciando a tutto il resto (ad esempio il mercato o la competitività tra Regioni) i livelli qualitativi ulteriori fuori LEP.
Infine, è da ricordare che proprio il Governo Conte I voleva che si realizzasse l’autonomia differenziata in base al punto 19 del famoso “Contratto di Governo” (vedasi libro L’inedito politico-costituzionale del Contratto di Governo, Aracne editrice, 2019, autore Angelo Lucarella).
PUNTO b3.
Cosicché, fatta la panoramica sulle criticità della riforma e del referendum stesso, mancano le alternative serie e fattibili con l’effetto, paradossale, che chi sostiene il referendum passerebbe come l’utile idiota del ricompattamento politico di partiti che hanno, storicamente e contemporaneamente, la responsabilità paterna e materna di quel Titolo V oggi posto alla base della riforma dell’autonomia differenziata.
Quindi una volta abrogata la norma, cosa propone chi è per il no?
Non è dato conoscersi alcunché.
Per quanto riguarda la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, in esame, a modesto avviso di chi scrive quest’analisi, si tratta di un provvedimento parzialmente incostituzionale (come spiegato).
Per il resto, aderire al referendum significherebbe sostenere una “iniziativa politica filo-nemicante” e non tecnica o costituzionalmente impattante in via irreversibile senza l’eventuale intervento della Corte costituzionale o del Parlamento stesso.
D’altronde, chi ha originato il problema nel 2001, non proponendo alternative rispetto al referendum (d’altronde sarebbe impossibile dal momento che si disconoscerebbe la propria origine politica sul Titolo V e si delegittimerebbero le Regioni che stanno avviando o che hanno già avviato le intese con lo Stato centrale), è anche chi vorrebbe strumentalizzare i cittadini per supportare il dualismo Nemico-Amico.
Sinceramente, tale metodo non è condivisibile.
A questo punto, sorge una domanda spontanea: se la legge sull’autonomia differenziata violenta i territori o è portatrice di iniquità e disparità di trattamento dovute alla strabordanza di competenza per materia, perché le Regioni (alcune di esse almeno) non promuovono ricorso alla Corte Costituzionale per conflitto con il potere centrale?
L’art. 127 della Costituzione, sul punto, prevede che “La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge)” anche se la Corte Costituzionale (decisione 406/1986), “in linea di principio”, ritiene che con il conflitto di attribuzione non si possa contestare un atto legislativo, tuttavia, ammettendolo solo in via eccezionale quando l’atto legislativo stesso comprima diritti fondamentali ed incida sulla materia costituzionale o sull’ordine costituzionale delle competenze oppure determini modificazioni irreversibili o insanabili dei rapporti giuridici (cfr. Corte cost. 161/1995; 457/1999; 221/2002; 273/2017).
Rimane un ultimo dilemma in termini di metodo e tecnica normativa che incide sulle dinamiche politico-costituzionali: se 13 su 14 materie elencate dalla legge in questione (art. 3) sono già nelle mani delle Regioni in base al potere legislativo concorrente, di quali ulteriori livelli di autonomia di vuole discutere? Qui è in ballo la tenuta socio-politica dell’Italia.
Per questo servirebbe una visione nuova e complessiva delle cose.
Il resto sembra una azzuffata continua tra chi sfrutta le falle costituzionali (non procurate dai Padri e dalle Madri costituenti) e chi si oppone solo per partito preso ai primi.
Il vero cambiamento, quindi, starebbe nel riformare bene quel Titolo V della Costituzione.
Finché non si discute di questo aspetto, tutto è dibattito insulso sia tecnicamente che politico-costituzionalmente parlando.
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