I dualismi, si sa, entusiasmano. Quando è possibile ridurre la complessità del reale in una partita a dama tra il bianco e il nero, il nostro inconscio gode profondamente. Dalla religione alle partite di calcio, il richiamo del “noi” contro “loro” è irresistibile. Del resto, il noi contro loro è scritto nel nostro DNA culturale fin dall’alba dei tempi. Pare, come ricorda spesso il bravissimo storico-divulgatore Alessandro Barbero, che quasi tutte le popolazioni primitive definivano loro stesse “gli uomini”. Gli altri, manco a dirlo, erano “loro”, i non uomini. Il mondo era ordinato, semplice, diviso tra bene e male.
Di dualismi è infarcita la storia politica del mondo. Greci e Barbari, Guelfi e Ghibellini, Cattolici e Protestanti, fino ai due blocchi ideologici novecenteschi. Per meglio dire, di questi dualismi sono infarcite le narrazioni – politicamente ispirate – della storia. Semplificazioni efficaci, utili a orientare la volontà collettiva a seconda degli interessi contingenti. Il tutto mentre, sulla scacchiera reale, la trama storica si nutre di alleanze e inimicizie stabili quanto la vita di una farfalla, guidate solo dall’interesse.
Se questa è la realtà da secoli, può forse fare eccezione la politica contemporanea? Può la politica del consenso, tipica degli ordinamenti democratici di massa, lasciarsi sfuggire l’occasione di capitalizzare un’espediente narrativo così ghiotto? Nemmeno per sogno. Così, da trent’anni, media e partiti ci tengono al palo, facendoci fare come i mosconi coi vetri, con la storia del “giustizialismo” contrapposto al “garantismo”.
Lungi da me ironizzare sulle diverse sensibilità personali in campo, a volte ideologiche, a volte condizionate da esperienze drammatiche personali. La diversità è ricchezza e contribuisce a caratterizzare l’offerta politica, quindi ben venga. Quando emergono spunti articolati, utili a vagliare criticamente tutti i profili controversi del sistema, la collettività ha solo da guadagnare.
Inutile negare, infatti, che di ombre sulle quali far chiarezza ce ne siano a volontà. Ciò, in primo luogo, poiché ogni articolazione del potere pubblico è composta da esseri umani ed eredita, perciò, i loro vizi. In secondo luogo, per quanto ci si sforzi di negarlo, la politica è, essenzialmente, conflitto aperto tra interessi contrapposti. A volte questi interessi sono vitali per qualcuno, alle volte incarnano valori ai quali è attribuito valore assoluto. Il risultato è che per gli attori in campo, spesso, la vittoria ha un valore tale da oscurare ogni questione di metodo. La posta in palio, purtroppo, è spesso tale da minimizzare ogni afflato di cavalleria, tanto più in una civiltà come la nostra, che definirei spiritualmente nuda.
Così, da un lato, è evidente che la lotta politica non rinunci affatto alla carta del “colpo di toga”, laddove possa avvalersene proficuamente. Dall’altro, è auto-evidente il carattere grottesco della narrazione opposta. Che la classe politica sia – al netto di mele marce – scevra da malizie, vittima sacrificale delle ambizioni eversive dei togati, è ridicolo. I tentativi di forzatura del meccanismo democratico, infatti, sono tutto fuorché unilaterali: piovono a fiotti da ogni direzione. Chiunque accumuli un minimo di potere, checché se ne dica, sviluppa all’istante allergie ai paletti tipici dello stato di diritto.
Qualcuno tenta di sottrarsi alle regole del gioco con la forza, qualcuno usa i soldi, qualcuno l’abuso di potere mediatico, altri creano sodalizi occulti. Ognuno a modo suo, i bari si annidano ovunque. Non esistono dualismi se non quello che vede contrapposto chi cerca di giocare secondo le regole e chi di forzarle. Ma, infondo, anche questo è fisiologico. Le regole del gioco non sono, infatti, scolpite nella fisica dell’Universo. Quando gli equilibri politici lo consentono, gli uomini si danno regole per limitare il caos naturale, che però non scompare. I tentativi di fondare i rapporti sociali su principi diversi dalla legge del più forte sono frutto della volontà umana, non di una qualche volontà trascendente.
Ed eccoci dunque a giustizialismo e garantismo. Cosa significa essere garantisti? Il termine è mutuato dal mondo forense. In ambito giudiziario, particolarmente in quello penale, il garantismo (la presunzione d’innocenza) è una fondamentale misura di sicurezza ed equità. In un processo, infatti, esiste una parte debole (l’imputato) e una forte (lo stato). Lo stato può usare legittimamente la forza, l’imputato no. Per questo è essenziale prevedere degli strumenti che bilancino l’asimmetria, perseguendo quella che chiamiamo giustizia. La Costituzione prevede numerosi contrappesi: si pensi ad esempio ai limiti posti all’utilizzabilità delle prove. Tra questi vi è anche la presunzione d’innocenza.
Fermiamoci un attimo sui limiti probatori. Capire che esistono prove che – onde evitare drammatici abusi (si pensi alla tortura) – non possono essere utilizzate, è molto importante. Infatti, da questo come da altri fattori, deriva che la verità processuale non coincide sempre con quella fattuale.
Qui si separano, razionalmente e incontestabilmente i due mondi: quello giudiziale e quello politico. Qui si separano, dunque, anche i due giudizi.
Da una condanna penale derivano effetti dirompenti per la vita dell’imputato. Le sue libertà fondamentali, i suoi diritti umani, vengono sospesi con la forza. Per questo, è essenziale che, per arrivare ad una condanna, sia necessaria una certezza particolarmente solida. Meglio liberare un colpevole che sanzionare un innocente, onde evitare che gli innocenti vivano nel terrore e la pace sociale ne risulti compromessa. Per questo, le semplici massime d’esperienza, le prove raccolte illecitamente, le sensazioni, non possono contribuire a formare la verità processuale.
Diverso è il discorso in politica. Nessuno ha il “diritto” di governare. Nessuno, a maggior ragione, ha il “diritto” di rappresentarmi in un’assemblea parlamentare (o in altri organi analoghi). Il giudice, qui, è ciascuno di noi. Qui non ci sono regole processuali, se non il nostro fiuto. Ognuno di noi valuta se un individuo (o una parte politica) è idoneo a rappresentare nei consessi decisionali i suoi interessi e i suoi valori. Il sospetto basta eccome, come in tutti i rapporti di fiducia. Sta alla sensatezza di ognuno, come accade nei rapporti privati, filtrare il sospetto infondato da quello fondato. Allo stesso modo, sta alla sensatezza di ognuno cercare di non cadere in trappola di false rappresentazioni, brandite da nemici dei nostri amici. D’altro canto, qui un fatto è un fatto, anche se giunto alla nostra attenzione per vie poco trasparenti o interessate.
Non è possibile, dunque, mutuare il “garantismo” (sacrosanto nelle aule di tribunale), all’interno dei seggi elettorali. Non sarebbe sano, né saggio. Peraltro, in politica occorre anche – come si suol dire – essere come la moglie di Cesare. L’apparenza, purtroppo, è essa stessa un fattore della capacità di proiezione di potere. Un governante su cui gravano sospetti di disonestà è debole, ricattabile e precario.
Il giustizialismo, ovviamente, è anch’esso una patologia. Un giudice può sbagliare, una sentenza può – in alcuni casi – essere condizionata da fattori politici. Non solo, ma alle volte una condanna può essere politicamente irrilevante. Il giudizio politico non è un giudizio morale assoluto e tanto meno può essere ridotto ad un giudizio sulla liceità della condotta. La retorica dell’onestà è riduttiva e, a volte, dannosa. L’onestà può, al massimo, essere un pre-requisito, ma serve ben altro per poter svolgere il compito al quale la politica chiama i suoi esponenti. Si tratta di capire chi è idoneo a comandare rappresentando interessi e valori condivisi. In alcuni casi, contravvenire alla legge penale non rende automaticamente inadeguati ad espletare il compito descritto.
Il punto, quindi, non è schierarsi da una parte o dall’altra. Occorre schierarsi sempre e solo con sé stessi, per cercare di sfuggire alle numerosissime trappole manipolatorie che la macchina dell’audience e del consenso ci lancia contro quotidianamente.
Schierarsi con sé stessi non significa però essere egoisti, disinteressati e apatici. Significa entrare in armonia con coloro con i quali condividiamo reali interessi e valori profondi. Vuol dire decidere se identificarci in una delle mille squadre che giocano secondo le regole o tra coloro, anch’essi tutt’altro che omogenei, che intendono forzarle. In secondo luogo, significa accettare la complessità del mondo e rassegnarsi ad usare il senso critico ogni singola volta, rifiutando riduzioni macchiettistiche della realtà. Schierarsi con sé stessi significa combattere le proprie battaglie e non abdicarle, anche quando non possono essere combattute solo nel privato e in solitudine, ma presuppongono una virtù politica.
Diversamente, saremo sempre complici di quelli che consideriamo essere i nostri peggiori nemici, siano essi le toghe rosse o i cavalieri blu.
© Riproduzione riservata