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Elezioni amministrative a Milano: ne parliamo con Mario Rodriguez

Mario Rodriguez

Milano si prepara alle elezioni amministrative: ne parliamo con Mario Rodriguez, politologo, consulente di comunicazione, docente a contratto presso numerose università italiane, tra cui la stessa Milano, Padova, Reggio Emilia.

Prof. Rodriguez, tra pochi mesi (non sappiamo ancora quanti) a Milano sarà tempo di elezioni amministrative. Come giudica l’operato di Sala e della sua giunta in questi anni?

Il giudizio sull’operato di un governo nazionale o locale si basa su due fattori: il primo è l’esperienza diretta che se ne fa, cosa si vive in quel periodo, cioè dove e come si entra in contatto diretto con quelle che appaiono le scelte o le decisioni di quel governo. Il secondo è il clima di opinione che si vive, quello che le persone si dicono di quello che vivono. E soprattutto come il sistema mediatico ne parla. Ovviamente i confini tra queste due aree sono labili e evidenziano i grandi limiti delle informazioni su cui si basano i giudizi (le opinioni) e sugli altrettanti limiti della razionalità di questi giudizi che appaiono sempre più impastati da sentimenti. Ma per non annoiare, rese esplicite queste precauzioni, a me pare che non ci siano ragioni forti e diffuse per criticare l’operato della giunta Sala. Io non ho dubbi a confermare la fiducia al Sindaco e la mia convinzione si rafforza quando gli sento riconoscere e mettere in evidenza, sulla base della esperienza fatta in questi anni, critiche e aree di miglioramento.

Milano ha un ruolo peculiare nella storia italiana, epicentro di fenomeni e movimenti che hanno poi segnato il corso degli eventi del nostro Paese.

Questa consapevolezza è fondamentale. Non deve scivolare in uno sciovinismo di maniera che esalta un presunto Modello Milano! Una cosa un po’ provinciale che non ha nulla a che fare con il riconoscimento delle peculiarità, della capacità di cogliere le specificità, quelle cose che per ragioni profonde da mettere a fuoco, fanno sì che a Milano accadano cose (per quella quantità che diviene qualità) che altrove non avvengono. O avvengono in forma meno evidente e significativa. Sono i fenomeni legati alla contemporaneità, concetto che Beppe Sala ebbe modo di ripetere molto nella sua campagna elettorale di cinque anni fa e che ebbi modo di vivere in presa diretta. Grandi fenomeni come l’industrializzazione e la de-industrializzazione hanno generato sviluppi evolutivi molto specifici a Milano. Così è stato per il passaggio alla società post industriale che ha valorizzato lo sviluppo dell’industria del sapere e della conoscenza, che mi pare il punto qualificante. Oggi Milano, lo abbiamo constatato con Expo, è la città che offre il miglior habitat all’economia della conoscenza e del sapere e questo rappresenta il motore della crescita sostenibile dal punto di vista ambientale ma anche sociale. Qui Milano ha qualcosa da dare a tutto il sistema economico e sociale europeo, non solo italiano. È un’opportunità.

Come vede la Milano dei prossimi anni?

Sempre più la città “scelta”. Dove persone rimangono per convinzione, perché ci trovano delle buone ragioni per realizzare sé stesse. Quindi una città accogliente e inclusiva. Mi piacerebbe vedere Milano come la città più “attraente” per i giovani di tutto il mondo che vogliono studiare, che vogliono formarsi in un contesto europeo con specificità italiane. Se posso dire una città dolce, non macha ma femminile, capace di abbracciare più che di penetrare, nodo non chiodo. Mi pare che Sala abbia adottato nel proprio racconto sulla Milano che ha in mente l’idea della città dei “15 minuti”, della città che rende accessibili a 15 minuti tutte le funzioni essenziali per vivere. Io vorrei che includesse nel suo racconto anche la valorizzazione di quelle cose uniche e irripetibili che ci sono a Milano, che avvengono soprattutto (se non solo) a Milano e che le danno sapore! A Milano si trova tutto quello che si trova nelle grandi città europee in salsa italiana. Oggi le tecnologie rendono accessibile ogni avvenimento da ogni luogo connesso. Ma non è la stessa cosa. Che a Milano ci siano tante Università pubbliche e private, la settimana della Moda o quella del Design, la Scala o i maggiori teatri italiani, si produca cultura, televisione ed editoria, ci siano le start up più dinamiche, ci siano i maggiori attori nell’industria tecnologica, tutto questo crea un melting pot unico che va salvaguardato. E per salvaguardarlo va mantenuto sia un elevato numero di giovani coppie con bambini residenti dentro la cerchia centrale, quindi politiche per la casa, sia un alto livello di attenzione al benessere sociale, quindi politiche di welfare forti. Milano ha il coeur in man perché questa è la condizione essenziale per essere un posto dove è bello vivere, far crescere i propri figli e vedere invecchiare i propri cari. C’è un po’ di egoismo nella generosità!

Il covid ha indebolito molto l’immagine della città che, nel dopo Expo, si era ritagliata un posto speciale tra le capitali europee e mondiali. Che cosa ha fallito? Come mai la città non ha retto, e su cosa, a suo parere, dovrebbe fare leva, per potersi rialzare?

Io non sono convinto che la città non abbia retto, che abbia fallito! La città è di fronte a una sfida inedita. Deve saper reagire. E io credo che lo debba fare sollecitando la società civile. Una collaborazione competitiva con la società civile! Milano mi pare una città che spesso ha reclutato i sindaci fuori dal circuito delle persone che “vivono di politica”. Come nel caso di Beppe Sala. Beh, credo che anche per la individuazione delle politiche di rilancio (ma non di rinascita!) si debba avere questa capacità di chiamare a raccolta gli attori sociali fondamentali: partendo dai cosiddetti corpi intermedi ma individuando le eccellenze capaci di aver prodotto innovazioni negli ambiti noti ma anche in quelli meno conosciuti. Bisogna scovarli come i cani da tartufo perché ci sono, sia nei campi “maggiori” ma anche in quelli “minori”, nei quartieri, nel mondo del volontariato e della solidarietà ad esempio.

Professore, lei ha una lunga e solida storia politica alle spalle: oggi è convintamente un riformista. A Milano, numerose forze politiche e partitiche sembrano richiamarsi a quell’area, ma rimangono frazionate, non riescono a fare gioco di squadra. Cosa suggerirebbe loro?

Non so se il termine riformista abbia senso se non lo si contrappone a massimalista. Io vorrei che si mettessero assieme tutte le persone che amano la politica, le riconoscono una funzione essenziale per dare senso alla nostra vita sociale. E che siano accomunate da una convinzione: la validità delle idee, delle credenze, si misura dalle conseguenze pratiche che queste determinano. Riprendiamo la strada della centralità delle politiche pubbliche, della verifica sperimentale, piuttosto che il confronto sulle “visioni del mondo” che scivolano facilmente sul terreno delle ideologie. Capisco che le soluzioni tecniche possano essere meno affascinanti di uno scontro tra il bene e il male, tra il sovranismo e l’europeismo, tra il populismo e la democrazia. Capisco che cosa fare delle aree abbandonate dalle industrie o dagli scali ferroviari possa essere meno eccitante di un bel dibattito sulle diseguaglianze e le ingiustizie. Dobbiamo certamente inserire le scelte politiche da prendere in una cornice di valori di riferimento. Ma spero si cerchino sempre prima di tutto le convergenze sulle “speranze ragionevoli”, lasciando da parte quelle “speranze smodate” (come spiegò il filosofo Paolo Rossi) che sono state tanta parte delle tragedie del ‘900. Ecco, in questo, sì, posso riconoscermi nel termine riformista.

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