Le dichiarazioni di Elly Schlein, la “non dem” che vuole rifondare il “partito dem”, sono in parte la sintesi del dibattito che si sta tessendo tra le varie anime del PD in ordine alla prossima ricostituente di primavera. Un po’ ovunque si parla di “come il partito dovrebbe essere” con le guance che ancora bruciano per la tranvata del 25 settembre.
Che all’interno del PD stiano ancora alla ricerca della identità del partito non è una cosa che sorprende. Quel che stupisce è che non si rendono conto che non la troveranno mai.
Il Partito Democratico nasce dalla fusione tra le forze cattoliche di sinistra e gli eredi del comunismo italiano. L’idea era maturata in un periodo in cui, sia a destra che a sinistra, il bipolarismo si era estremizzato e si era sciolto nel concetto del bipartitismo e Veltroni, allora segretario “dem” seguace della vocazione maggioritaria a prescindere e cultore del neo “new deal” americano, aveva infarcito il suo messaggio politico di americanismi sfrenati, dei quali “you can” era lo slogan, e il suo progetto divenne quello di un grande e unico partito della sinistra scimmiottato ovviamente a quello Democratico statunitense.
Una sintesi non riuscita perché oggi sappiamo, e ne abbiamo conferma, che uno dei problemi del PD è proprio la difficilissima convivenza tra le due anime. Mentre quella che invece gli è riuscita benissimo è la conservazione di una politica semi-integralista che ha contribuito a esasperare il bipolarismo e che si è concretizzata con una serie di scelte che hanno il sapore, neanche tanto vago, dell’antico rigore politico del centralismo democratico del vecchio PCI.
La posizione favorevole al progetto di ridurre il numero dei parlamentari, la scelta giustizialista ai referendum sulla giustizia (ci si perdoni la tautologia), la adesione totale alle linee populiste di Conte, Grillo & Company, (tanto per parlare degli ultimi mesi) sono scelte figlie dello stesso rigore politico che indusse il PCI a non votare lo Statuto dei lavoratori e fu freddo, rigorosamente freddo, nell’appoggiare il processo di adozione della legge sul divorzio, salvo poi scendere in campo al successivo referendum ma solo perché aveva fiutato l’orientamento della piazza.
E quindi, mentre le due anime democratiche si continuano a guerreggiare in ogni contado del reame, l’aroma che emerge dalle parti del Nazareno ha sempre più il sapore di un gauchisme radicale e radicalizzato che ovviamente niente ha a che fare con la scelta di aderire al PES e la cui permanenza è scomoda agli ospiti e agli ospitati.
Quel che la rampante esponente bolognese e suoi competitor, alla carica di futuro segretario nazionale del PD, dovrebbero capire è che il problema del Partito Democratico non è “come dovrebbe essere” e se la fusione fredda, mai riuscita, tra cattolici e (post, ex o para) comunisti possa o debba essere spalmata con il “civismo di maniera” così come la maionese sulla frittura sfuma il senso forte dell’olio arroventato.
Il problema del PD è “cosa debba essere” e “cosa debba fare” per interpretare al meglio il fabbisogno politico del paese che certamente non è quello che sino ad ora ha fatto. E già perché quello di cui una certa Italia ha necessità, e le recenti elezioni lo hanno dimostrato, non è una forte componente politica di sinistra.
In Italia c’è bisogno di socialdemocrazia e di riformismo che nessuno in questo paese ha saputo interpretare dai tempi di tangentopoli, e della fine della prima repubblica, a oggi.
Ed evidentemente non sono serviti i mantelli socialisti o i cappotti riformisti, che qualcuno ogni tanto ha indossato, perché socialdemocrazia e riformismo sono valori che provengono da lontano, hanno radici antiche, sono modi di vivere la politica e non di interpretarla che nascono da Turati, passano per Matteotti, i fratelli Rosselli, Saragat, dopo il 1950 Nenni e Craxi. E se non si capisce la storia della scissione di Livorno o di quella di Palazzo Berberini non se ne può vivere il senso né oggi né mai.
Quello che il PD dovrebbe fare è di trasformarsi in un autentico “partito socialista”, sposandone il senso di tolleranza, il garantismo, la vicinanza ai deboli, la apertura sulle nuove frontiere dei diritti civili e delle politiche salariali, scegliere una politica internazionale che si ispiri alla grande socialdemocrazia europea di Soares, Gonzales, Mitterand e Craxi e che trovi la fonte dei suoi valori nel pensiero di padri del socialismo europeo come Olof Palme e Willy Brandt.
E nel fronte interno dovrebbe vivere il valore della solidarietà e far crescere la piccola comunità socialista che gli è a fianco per cercare di assorbirne i valori e le idee e non trascinarsela nel baratro come è successo un paio di mesi fa.
Dovrebbe cedere al piccolo alleato (e questo a sua volta dovrebbe saperlo pretendere senza bolsi appiattimenti) presenze parlamentari, qualche presidenza di regione, sindacature di città importanti e non, per crescere con esso e con il resto del mondo riformista, e far sì che la socialdemocrazia non sia solo un mantello indossato in un giorno di pioggia.
Sotto il profilo elettorale la partita non si gioca consolidando il proprio bottino di elettori, ma su quella grande massa di voti che non è schierata, che segue la propria opinione, che vuole una Italia, solida, non conflittuale, non estremista che affronti e risolva i problemi del paese e vada incontro alla gente.
Quella massa di voti, che si sposta di qui e di là, che premiò Berlusconi, poi l’Ulivo di Prodi e poi Renzi, poi Salvini, poi protestò votando Grillo e che oggi ha dato fiducia al decisionismo della Meloni, ha una natura moderata e premia chi è o chi si sa mostrare moderato.
Una coalizione totalmente ed esclusivamente di sinistra a quei voti non arriverà mai specie come quella che si è presentata alle ultime elezioni. Sarebbe dovuta essere di centro-sinistra e non di sinistra e assieme ai socialisti avrebbe dovuto allargarsi a chi è al centro e non a chi siede dall’altra parte.
E così sarebbe stata una alleanza vincente in assoluto. Perché la questione non è solo quella di vincere le elezioni ma anche la sfida della governabilità. Ma l’attesa di un PD “socialista”, ahimè è probabilmente la stessa che vissero Vladimir e Estragon: Godot non arrivò mai e chi lo aspetta smetta di aspettarlo. Per ora.
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