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La paternità è anche una traversata nel deserto, soprattutto per quelli separati

Avvocato e comunicatore
La paternità è anche una traversata nel deserto, soprattutto per quelli separati

Le donne in Italia devono costantemente fare i conti con discriminazioni di diversa forma e natura. Sono infiniti i progetti di legge, le iniziative, gli eventi e le associazioni concepite per la loro tutela; a livello teorico, essere uomini in Italia rappresenta una sorta di “privilegio”. Per certi aspetti è così, ma non per tutti perché le discriminazioni sanno essere anche molto eque e soprattutto generano altre diseguaglianze. Esiste un importante caso di “discriminazione” maschile in Italia. Un elefante nella stanza, anzi un mammuth.

Gli uomini quando diventano padri. È difficile immaginare una discriminazione più silenziosa e sottovalutata di quella che affrontano i padri in Italia. Il motivo è semplice: spesso sono i padri stessi ad esserne i primi complici, i primi ad avallarla. Se è vero che la maternità è un processo biologico ed un’esperienza umana per la donna molto diversa rispetto alla paternità, è altrettanto vero che gli squilibri sociali causati dalla presunta subalternità del padre rispetto alla madre, soprattutto nella prima fase di vita dei figli, rappresenta un danno incalcolabile per la società, per i figli, per i padri stessi ed ancor di più per le madri che non possono nei fatti contare su un supporto neanche lontanamente equiparabile al loro.

Tutti i “padri coraggiosi” che, nonostante l’attuale “inverno demografico”, decidono di andare contro-tendenza, di ribellarsi alle statistiche e di allargare con mogli/compagne le proprie famiglie, devono essere preparati non solo all’incalcolabile sentimento di affetto che i figli restituiscono, non solo all’esperienza di crescita umana e personale rappresentata dall’esperienza della paternità, (l’esperienza di donare tutto a qualcuno, di anteporre la vita di un altro essere umano alla propria, di vedere una pianta crescere ed immaginare un albero). No, non solo questo. Devono anche essere preparati al peggio: devono essere preparati ad una società in cui i padri, nella prima fase di vita dei figli, vengono spesso nei fatti percepiti come oggetti di design, come quelli che non li hanno messi al mondo quindi non possono capire, quelli che hanno unicamente il ruolo di accompagnarli a scuola o all’asilo e poco altro, quelli che non sanno preparare da mangiare, che non li sanno accudire come si deve (anche perché una società tragicamente maschilista come la nostra non lo ha mai preteso), insomma quelli che non hanno “l’istinto materno” quindi sono fuori dalla partita.

Icastico in tal senso è quel mostro giuridico chiamato “congedo di paternità”, un insulto quotidiano a tutte le famiglie italiane. In Italia, il congedo di maternità obbligatoria dura cinque mesi suddivisi in genere in tre di pre-parto ed in due di post-parto. Le madri hanno tuttavia la facoltà di lavorare anche l’ottavo ed il nono mese di gravidanza, usufruendo dunque di un congedo di cinque mesi interamente dopo il parto. I padri invece? Dieci giorni. Come dei conoscenti qualsiasi. Come se, in una famiglia che ha appena generato un figlio, un padre a conti fatti non serva più dopo dieci giorni. Ovviamente non proveniamo da Marte e sappiamo che l’esperienza umana e biologica della gravidanza sia esclusivamente femminile ma, proprio per questo, immaginare che una donna possa contare sul proprio compagno di default solo per dieci giorni è profondamente ingiusto e dannoso.

Detto ciò, facciamo attenzione: esiste anche il congedo parentale ovvero entrambi i genitori hanno diritto ad un periodo complessivo di dieci mesi (per entrambi) di congedo lavorativo spalmabile nei primi 12 anni di vita dei figli. Il padre, tecnicamente, può anche decidere di usufruirne ma, a differenza dei cinque mesi di maternità, per la madre non è un diritto esclusivo perché spetta ad entrambi i genitori. Ciò significa che la madre può contare sia su un congedo di maternità che su un congedo parentale consono, mentre il padre solo sul secondo e questo ha come ulteriore effetto che la famiglia nel suo complesso non possa contare sull’equo supporto di entrambi i genitori. Ma dobbiamo fare uno sforzo in più nel ragionamento perché il nocciolo della questione in realtà è che un congedo di paternità così strutturato finisce non solo per svantaggiare i padri ma anche e soprattutto le madri. Spesso surrettiziamente i datori di lavoro, a scapito del merito, per determinati ruoli preferiscono assumere uomini invece che donne proprio perché il congedo di maternità viene percepito come un enorme peso/ostacolo rispetto agli eventuali dieci giorni del padre. Se invece il congedo di paternità venisse il più possibile equiparato a quello di maternità questa discriminazione si scioglierebbe come neve al sole e magari anche la natalità ne gioverebbe.

Tuttavia, quello appena delineato è solo il quadro iniziale, quando “le cose vanno bene”. Perché, quando a livello sentimentale inizia ad incrinarsi il rapporto con le madri o addirittura si arriva alla separazione e al divorzio, lì comincia tutto un altro capitolo, anzi una cantica. L’inferno, appunto. La vita condotta dai padri separati o divorziati nel nostro Paese è una delle dinamiche più borderline dello stato di diritto. La legge italiana prevede che l’affidamento dei figli minorenni possa essere sia esclusivo ad uno dei genitori (minoranza dei casi) sia “condiviso” ovvero i genitori possono trascorrere il tempo con i figli ed educarli in misura pari, condividendo equamente tutte le scelte nell’interesse della prole. L’intenzione del legislatore, con questo quadro normativo, è quella di tutelare la crescita dei figli ed i diritti di entrambi i genitori.

Chi è giurista, e ancor di più chi è divorziato, sa benissimo tuttavia che l’affidamento condiviso (a livello teorico ineccepibile) cela anche un altro tipo di realtà: quella del genitore “collocatario”, ovvero quel genitore presso cui “in via prevalente” viene collocata la prole. In sintesi, parliamo del genitore che de facto convive con il figlio nella casa coniugale che il giudice, come è noto, nella maggior parte dei casi, assegna alla madre, “maternal preference”. Ciò significa che in Italia, a torto o a ragione, dopo una separazione il figlio può vedere il padre regolarmente ma quasi sempre convive con la madre che, per forza di cose, ne influenza la vita, il pensiero e le scelte in misura estremamente maggiore rispetto al padre. Nell’interesse del minore non avrebbe senso costringere figlio/figlia a dividere la settimana in eguale misura tra madre/padre, perlomeno a livello di convivenza, anzi al contrario questa quotidianità finirebbe per destabilizzare il figlio che si vedrebbe sballottato da una parte all’altra con la conseguente mancanza di un’abitazione stabile che assolva a punto di riferimento della sua vita, senza considerare i disagi su resa scolastica, stanchezza e stress.

A livello meramente teorico, fin quando da parte di entrambi i genitori c’è razionalità, buon senso e cooperazione l’affidamento condiviso è la soluzione più giusta per entrambi. La cronaca però dimostra che, non di rado, dopo la rottura di un rapporto sentimentale (a volte consensuale, altre volte meno), l’epilogo più comune è che il padre (anche sulla scia dell’inconscio retaggio culturale a cui abbiamo fatto riferimento inizialmente) decida autonomamente di lasciare la casa coniugale. I figli si trovano dunque da un giorno all’altro a convivere e crescere solo con la madre, intraprendendo un processo educativo ed una quotidianità non di perfetto equilibrio tra i due come la legge sancisce, auspica ed impone. Non solo: spesso e volentieri, in una situazione familiare già delicata come può essere quella di una coppia separata/divorziata, il padre si trova ad aver a che fare con il versamento dell’assegno (legittimo) di mantenimento dei figli e del coniuge (se privo di reddito) ed a sostenere contemporaneamente doppie spese di affitto o mutuo, spese condominiali, IMU sia per la casa in cui si trova ad abitare da separato sia per la casa assegnata a figli e madre.

L’accumulo di queste spese, porta spesso padri comuni (che non possono contare su disponibilità immobiliari/ed economiche privilegiate o sul supporto delle famiglie) a vere e proprie situazioni di indigenza. Separazione e divorzi rappresentano quasi sempre uno tsunami personale/finanziario anche per donne/madri ma, in merito alla prospettiva di continuare a vivere e convivere liberamente con i propri figli, una delle due parti nella prassi giuridica e nella concretezza è molto più debole, quella paterna. Soprattutto nel caso in cui i due genitori non vivano nello stesso Comune. Indimenticata la drammatica scena del Sig. Nicola De Martino che, intervistato in diretta al Tg2 da Maurizio Martinelli il 7 dicembre 2006, si cospargeva di benzina minacciando di darsi fuoco nel caso in cui il conduttore non avesse letto la sua lettera riguardante la triste storia del figlio Luca che minorenne era stato portato dalla moglie in Australia e da anni non poteva vederlo. Ovviamente questo è un caso limite, però fa un po’ specie notare che il tema nel dibattito generale non venga quasi mai tirato in ballo.

Moltissime sono le occasioni di confronto nelle università, sui media, in Parlamento ed in tutte le sedi per affrontare il tema del sostegno alla maternità oppure la lotta alla denatalità ma dei padri (e soprattutto dei padri separati) se ne parla troppo poco e per merito di poche lodevoli mosche bianche come l’Associazione dei Padri Separati. Si da per scontato che in quanto uomini sono “quelli forti” (ancora retaggio) ed è anche per questo motivo che il congedo di paternità di dieci giorni viene tacitamente accettato, perché gli uomini devono tornare a lavoro (che le donne non lavorino non solo è concesso ma, per la nostra società incompiuta, è addirittura auspicabile).

Qualcuno ha mai chiesto ai padri se davvero si sentono forti? Se per loro è giusto ricominciare a lavorare dopo pochi giorni e lasciare le mogli da sole invece di sostenerle in quella che, ormai da tutti gli analisti, è riconosciuta come la fase di vita più delicata di una donna? È però evidente che la società italiana è tuttora drammaticamente patriarcale ma non per questo a misura di papà. Una società in cui l’abitudine al doppio-cognome per i nuovi nati stenta a decollare (in primis per la riluttanza degli uomini), in cui “auguri e figli maschi” è ancora un’espressione diffusa, una società in cui i padri vengono in molti casi abbandonati a loro stessi.

Per essere madri in Italia ci vuole coraggio; per decidere liberamente di non esserlo forse ce ne vuole di più. Ma lo stesso discorso vale per i padri. Altroché. Con questo non si vuole mettere in dubbio la gratitudine atavica ed eterna alle madri, non si vuole sminuire l’importanza della genitorialità, l’affetto per i figli, la soddisfazione di vederli crescere, di riscoprire attraverso i loro occhi le piccole cose. Soprattutto, non si vuole scappare dal sacrificio, un valore che da tempo la contemporaneità ha perso di vista. Ma una cosa sono i sacrifici, altra le ingiustizie. Nell’Italia del 2023 gli aspiranti padri devono essere preparati ad una traversata nel deserto. In solitaria. Un deserto in cui però nascono i fiori.  I fiori non hanno colpe.