Avete mai visto una saracinesca che viene abbassata per sempre? La saracinesca del negoziante sotto casa magari. Quello di fiducia dove si compra il pane o i giornali o si fa colazione tutti i giorni. Quanto strazio prova quel piccolo imprenditore solo lui può saperlo (e ovviamente, si ipotizza, anche la sua famiglia). Chi ha svolto la scuola superiore in un istituto tecnico-commerciale (ex ragionieri) ricorda, sicuramente, come una delle prime lezioni di economia aziendale fosse dedicata al capire il concetto d’impresa. Nozionisticamente si tratta dell’attività professionale, in particolare dell’imprenditore, organizzata per produrre o scambiare beni o servizi.
Ma se osserviamo bene, come se fossimo lì piazzati davanti al negozietto sotto casa, potremmo accorgerci di una cosa semplice ed al tempo stesso disarmante. L’impresa, lo stesso termine lo dice d’altronde, è letteralmente fare un’impresa (si scusi il gioco di parole)! Si può percepire l’essenza di questo termine? C’è una regola che non tradisce: l’osservazione sensibile. Impresa è alzare la saracinesca per poi abbassarla. Impresa è abbassare la saracinesca per poi rialzarla in una dinamica ciclica e continua finché non si finisce. “Non si finisce”, in effetti, è un concetto ambiguo perché può essere legato al finire un lavoro iniziato, servire un cliente, inventare un prodotto nuovo, fare ricerca, pulire, avere cura del luogo, ecc. Ma c’è un “Non si finisce” che spezza tutto. Che spazza via tutto. È quando il piccolo imprenditore è sul lastrico, magari, non per colpa sua.
Quando, ad esempio, i soldi messi da parte per pagare le imposte e le tasse per l’anno successivo o l’anno precedente sono servite per andare avanti, fare la spesa, perché un fatto straordinario (come il Covid ad esempio) ha destabilizzato tutto l’assetto organizzato, creato e generato chissà in quanti anni. E allora che si fa? Senza ristori degni del nome, senza uno Stato che sa rinunciare a sanzioni sproporzionate rispetto alla concreta capacità dell’individuo, senza un “tampone” serio a degenerazioni del sistema e un cuscinetto di recupero per migliaia di partite iva produttive in piena sofferenza (medie e/o piccole che siano) dove si pensa si giungerà presto? Le strade sono davanti agli occhi di tutti e basta immaginare con l’angoscia che prova il negoziante che abbassa la saracinesca ogni sera. Fallimenti a ripetizione, chiusure volontarie, incapacità di recupero per lo Stato, meno introiti erariali. E la parte di PNRR da restituire come la si vuol ripagare?
Badiamo bene che chi imprende e decide di investire in Italia, con tutta la pressione fiscale esistente, è già un miracolo che lo faccia. Se poi ci aggiungiamo il nuovo leitmotiv per cui se non lavori hai anche un reddito (il ché non significa disconoscere il dovere di aiutare chi ha bisogno), allora, occorre dirci la verità: il debito pubblico non si paga strangolando le imprese. Senza quest’ultime, altro che PNRR. Rischiamo di trovarci, prima o poi, nel PCR: parto collettivo di reazione. E se questo si avvera il rischio di tenuta del Paese può essere concreto; financo irrecuperabile. Perché come quando una impresa chiude, il luogo perde un presidio. Primo fra tutti, quello della legalità.
© Riproduzione riservata
