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La fine del contismo

Presidente Fondazione PER
Foto Roberto Monaldo / LaPresse
13-06-2021 Roma
Politica
Trasmissione tv !"Mezz’ora in più"
Nella foto Giuseppe Conte

Photo Roberto Monaldo / LaPresse 
13-06-2021 Rome (Italy) 
Tv program "Mezz’ora in più"
In the pic Giuseppe Conte
Foto Roberto Monaldo / LaPresse 13-06-2021 Roma Politica Trasmissione tv !"Mezz’ora in più" Nella foto Giuseppe Conte Photo Roberto Monaldo / LaPresse 13-06-2021 Rome (Italy) Tv program "Mezz’ora in più" In the pic Giuseppe Conte

Li avevamo lasciati a “Conte o morte”, a “Conte o elezioni”, mentre D’Alema spiegava agli ignoranti che se anche Togliatti aveva puntato a un accordo con l’Uomo Qualunque di Giannini nell’immediato dopoguerra. Il Pd di Zingaretti e poi quello di Letta potevano ben fare un accordo per salvare un’alleanza politica e un’esperienza di governo che godeva di ampio sostegno nel paese. C’era stato chi come Bettini e Bersani avevano spinto sull’acceleratore fino a punto di elaborare il sogno di un “partito unico” demopopulista, una sorta di partito plebiscitario guidato dall’avvocato pugliese. Questo progetto/desiderio, pompato dai grandi organi di stampa pubblici e privati si era trasformata in una suggestione di massa, segnalata da tutti i rilevamenti demoscopici, rappresentava il punto massimo di egemonia culturale raggiunto dal populismo a cui si opponevano . poche e isolate voci: qualche giornale indipendente e un piccolo gruppo parlamentare, guidato dall’”uomo più impopolare d’Italia” come D’Alema definì Renzi. Ma la resistenza parlamentare di Italia Viva, la disponibilità di Draghi e la lungimiranza di Mattarella hanno prodotto un miracolo politico che ha spazzato via quella artificiosa visione ideologica e quella mefitica cappa sul futuro del paese che prendeva il nome di Conte III.

La fine del contismo

A sei mesi di distanza, in una nuova “era” politica, il mondo dei balocchi del “contismo” è paurosamente franato a terra disvelando in questo collasso alcuni nodi irrisolti e irresolubili di quel progetto politico, a partire dalla rimozione pervicace dell’inconsistenza politica dell’avvocato di Volturara Appula che avrebbe dovuto rappresentarne la sintesi anche sul piano in certa misura simbolico. I leader politici non si inventano – lo ha ricordato persino Beppe Grillo – tanto meno se il laboratorio da cui avrebbe dovuto emergere era apparecchiato da Di Maio e il suo entourage di dirigenti del M5S usciti già duramente colpiti dall’esperienza del Conte I, da Travaglio e Damilano, e soprattutto dagli opachi circuiti del sistema correntizio del PD ora dominato dalle sue componenti massimaliste.
Da questo laboratorio poteva nascere una cosa sola: un modesto politicante capace di destreggiarsi nelle debolezze altrui e di utilizzare la potenza di fuoco del sistema mediatico populista per costruirsi quella leadership immaginaria indispensabile per realizzare il compito effettivo della sua concreta contituency: servirsi dell’esperienza di governo per costruire le basi materiali – in termini di gestione del potere, di definizione delle linee di indirizzo della politica economica, di redistribuzione delle immense disponibilità finanziarie garantite dalla UE, di rapporti con la magistratura, di lotta alla pandemia – dell’alleanza demopopulista.

La romanizzazione trasformista

Quest’alleanza comportava due processi politici convergenti che riguardavano entrambi i contraenti. Il primo consisteva in una frettolosa “romanizzazione dei barbari”, cioè trasformare un movimento antisistemico e antidemocratico, sostanzialmente reazionario, quale era il M5S, in un partito populista moderato, espressione dei ceti marginali del Mezzogiorno legati alla spesa pubblica, di cui Conte era il capo politico ideale: un uomo privo di idee, né di destra, né di sinistra, capace di miscelare per il suo “pubblico” una incerta collocazione internazionale, tanto assistenzialismo e un po’ di anticapitalismo di maniera, tanta protezione sociale verso i già garantiti, il tutto condito con l’immancabile richiamo alla sostenibilità ambientale; insomma fare del M5S una sorta di Uomo Qualunque 2.0. deprivato della sua carica eversiva, ma saldamente integrato nel sistema di potere statale e dotato di una vocazione trasformista del tutto originale.
La mutazione del Pd
Il secondo riguardava il Pd e consisteva nella necessità che esso abbandonasse il suo profilo originario, riformista e a vocazione maggioritaria, per tornare ad essere una delle tante reincarnazioni di quella particolare tradizione della sinistra italiana che per comodità può essere chiamata postcomunismo, nella quale si combinano le molteplici eredità di tutte le questioni irrisolte in termini culturali, politici e ideali dell’approdo al Pds e alle successive varianti a partire dal nodo originario. La riattualizzazione di alcune parole d’ordine che il Pd di Zingaretti ha rimesso al centro della sua nuova identità come superamento del modello di sviluppo, lotta al capitalismo, antiliberalismo e primato dello stato nel controllo del mercato, difesa del welfare novecentesco, appaiono come l’esito di una ricollocazione del Pd dentro quella tradizione, di cui invece la nascita del Pd rappresentava la definitiva fuoriuscita.
Se il partito di Veltroni e di Renzi si cimentava nello sforzo di ridefinire la giustizia sociale all’interno della modernità della IV rivoluzione industriale e della globalizzazione, quello di Zingaretti, Letta e Bersani si propone invece di tutelare i suoi elettori di riferimento, che sono in larga misura pubblici impiegati e pensionati, dai cambiamenti che il globalismo porta con se, abbarbicandosi soprattutto all’uso redistributivo della spesa pubblica alimentata soprattutto dalla pressione fiscale, perché ancorarla allo sviluppo economico implicherebbe ridimensionare il peso delle corporazioni, che sono uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo delle forze produttive.
Questa revisione ideologica ha prodotto un mutamento sostanziale del Pd, allontanandolo progressivamente dal cambiamento come principale bussola di orientamento della sua azione politica, e trasformandolo in un partito conservativo, se non proprio conservatore, che maschera questa nuova identità agli occhi del suo mondo di riferimento dietro la riscoperta dei tratti populisti che nella tradizione del postcomunismo non solo mani mancati.

E ora?

Questo doppio processo è stato alla base dei fasti del contismo: un operazione trasformista che poteva presentarsi come una nuova alleanza progressista, nella misura in cui entrambi i contraenti avevano perduto molti rapporti con il progresso “vero”, ma insieme ne avevano costruito una rappresentazione mimetica e retorica, fondata sull’evocazione del cambiamento del modello di sviluppo e sui richiami alla decrescita felice, come si intravedeva nei progetti del Recovery Fund abbozzati dal Conte II.
Ma il governo Draghi ha obbligato tutti a un bagno di realtà e la politica con la P maiuscola ha travolto questa modesta scorciatoia politicista mostrandone tutte le implicazione regressive e gli ideologismi inconcludenti, lasciando tutti gli attori in mezzo al guado. Grillo ha rivendicato la distanza tra il progetto originario del movimento dotato di un suo afflato messianico e l’operazione di potere progettata da Conte, abbandonando l’avvocato pugliese al suo destino di effettivo “prestanome”, ma collocando la sua creatura nella terra di nessuno dell’irrilevanza, mentre il PD si trova senza progetto e senza alleati appollaiato sul suo modesto bottino elettorale uguale a quello di Renzi del 2018 che ne sancisce il suo irrisolto minoritarismo. Il disegno demopopulista a cui si era dedicato l’intero gruppo dirigente del Pd è fortemente compromesso e cambiarlo nell’unica direzione possibile, cioè ritornando ad essere il baricentro del campo progressista – il partito di Draghi invece che il partito di Conte – , è una operazione molto più complessa del previsto: ci vorrebbe un leader, cosa che Letta non è, e sulla sua strada troverebbe invece l’unico leader che la sinistra ha prodotto nell’ultimo decennio, Renzi, forte del fatto di avere azzeccato tutte le mosse politiche con suo partitino del 2%, con il quale dovrebbe tornare a fare i conti dopo averlo demonizzato e defenestrato.