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La ricostruzione dell’Italia, I

Direttore d'orchestra
La ricostruzione dell’Italia, I

Mentre si consuma la crisi del Conte 2 e si spera si vada ad una ricostituzione di una maggioranza coesa, non è improprio fare alcune considerazioni su cosa veramente serva al nostro paese.
È straordinario vedere, leggere, osservare gli interventi di soloni della politica, degli scherani dell’opposizione e dei geni del liberalismo, dei Calenda, dei Salvini, delle Meloni, dei Brunetta, dei Tremonti, dei Monti, che dicono di tutto, parlano per ore e non colgono alcun aspetto essenziale della situazione italiana.

Tutti parlano dei fondi del Recovery e del Piano di Ripresa e Resilienza, ma nessuno si è accorto che i fondi Next Generation Eu riguardano una transizione economica europea nel suo insieme, cioè riguardano un aiuto nel complesso, 750 miliardi, a tutta l’Europa, e questi fondi non serviranno in alcun modo a sanare il problema strutturale italiano: cioè che negli ultimi 25 anni il PIL della Cina è cresciuto di circa il 450%, quello della Germania e della Francia è cresciuto del 45% mentre quello italiano del 16%.

Il caso Italia deve essere curato con formule italiane e non servirà nessun Recovery a renderci più competitivi sul fronte internazionale.

Ascoltando i nostri illustri rappresentanti sembra che, a turno, il problema siano: gli immigrati, i buoni amministratori, i ristoratori, i bar, la scuola dei bimbi, il MES, non c’è nessuno che affronti e nemmeno tenti di affrontare i problemi strutturali.

Pensiamo veramente come dice Calenda che una pletora di buoni burocrati amministratori al governo dell’Italia cambi le dimensioni del problema? Il governo Monti l’abbiano avuto, fatto da esperti, ma hanno fatto le riforme strutturali di cui ha bisogno l’Italia?
Monti, sostenuto da destra e sinistra, ha fatto una manovra da 20 miliardi, ha messo la tassa sulla prima casa, ha fatto tagli alla spesa pubblica, ha trasformato le province in organi di secondo grado, ha cercato, senza riuscirvi, di togliere l’art 18, ha fatto mettere nella Costituzione italiana l’obbligo del pareggio di bilancio, ha fatto la legge Severino, la legge Fornero, con l’aumento della età pensionabile.
Questo hanno fatto i buoni amministratori che vuole Calenda. È cambiato sostanzialmente qualcosa?

Allora, anche se io sono un vile direttore d’orchestra, vorrei mettermi nei panni di una persona di buon senso e dire quelle cose che sono urgenti da fare e capire perché Germania e Francia vanno tre volte più veloci di noi.
Mi sono fatto ovviamente aiutare da alcune solide letture, Pietro Ichino, Luca Ricolfi, Miguel Gotor, Mariana Mazzuccato…

I problemi italiani sono: la bassa produttività del lavoro, la totale assenza pratica di politiche attive del lavoro, la ancora scarsa meccanizzazione della industria e agricoltura italiana, la non sufficiente presenza di distretti industriali con alta densità di forza lavoro, la incapacità di attrattiva, anzi la ostilità ad attrarre capitali ed imprenditori stranieri, l’immobilismo del capitalismo familistico nazionale, la mancanza della contrattazione aziendale, che in Germania vent’anni fa ha messo il vento in poppa all’economia, e poi la lentezza del sistema giudiziario, la eccessiva burocrazia, la mancanza di un piano strategico sugli asset nazionali, e poi tutti i problemi legati alla politica: assistenzialismo, clientelismo, lottizzazione, trasformismo, irresponsabilità fiscale, sottovalutazione del debito.

Partiamo da qui, dal debito. In questo intervento mi limito al problema della internazionalizzazione, riservandomi di affrontare gli altri problemi in successivi interventi.

Per far fronte alla crisi finanziaria generalizzata l’unica possibilità che si pone di fronte alla società italiana è una ed unica: tornare ad essere un paese con alta produttività, tornare o diventare un paese che lavora e produce con una alta redditività, o almeno alta rispetto alla media dei paesi europei.

La arretratezza italiana non è dovuta a Conte, a Renzi o a Gentiloni, come pensano i sovranisti italiani.

Il centrodestra nel decennio dal 2000 al 2010 , con Forza Italia, Lega e Alleanza Nazionale, con i professoroni alla Brunetta, alla Tremonti e alla Frattini, ha governato per 8/10 del tempo, e il risultato è stato come fin troppo noto lo spread a 574 punti e il commissariamento di Trichet e Draghi del governo italiano attraverso il governo di emergenza nazionale di Monti sostenuto da tutti i partiti.

Il “sovranismo” è la malattia endemica dell’economia italiana, malattia diffusa anche nel sindacalismo italiano, cosa che ha impedito per tanti anni la possibilità di approdo in Italia di capitali ed investitori stranieri di qualità.

Ci ricordiamo perfettamente la vicenda Alitalia, quando Prodi trovò Air France/KLM pronta a investire 1 miliardo e ad accollarsi un altro miliardo e mezzo di debiti nella compagnia chiedendo una riduzione della forza lavoro del 10% delle unità.

Ancora fanno male le vuote parole retoriche della CGIL di allora “l’Italia non è in vendita”.

Il piano industriale fu bollato come inaccettabile per preferirgli quello della italianità dei “capitani coraggiosi” di Colaninno, che di tutto si erano occupati nella vita tranne che far volare aeroplani: il risultato è stato infatti il salvataggio di Stato e la nazionalizzazione di una impresa tecnicamente decotta, un’impresa che perde oltre un milione di euro al giorno.

Mi si obbietterà che la nazionalizzazione è compatibile con una politica industriale in stile “nazionalizzazione comunista dei mezzi dei produzione ”. Che la CGIL, giustamente, persegue il superamento del capitalismo e quindi propende per una nazionalizzazione dei mezzi di produzione espropriandoli agli imprenditori privati. Potrei essere anche d’accordo. Chi di noi non vorrebbe realizzare d’incanto la società ideale del comunismo dove non esistesse lo sfruttamento.

Ma allora bisogna studiare Marx e Lenin, non parlare a casaccio. L’ espropriazione dei mezzi di produzione deve andare di pari passo con la proletarizzazione di tutte le mansioni, cioè il taglio di tutti gli stipendi al livello “della paga base di un operaio”, ivi comprese mansioni amministrative di alto livello, le mansioni direttive, e le mansioni tecniche di alto profilo, comprese quelle dei piloti e dei manutentori. Tutti gli stipendi al minimo. Inoltre Lenin prevedeva la revocabilità di tutte le figure amministrative. Bene. Allora così la nazionalizzazione ha senso.

Con queste condizioni ha senso qualsiasi nazionalizzazione, anche della Fiat, di Prada, di Dolce e Gabbana, di Armani, di Poltrone e Sofá, di Motta, di Barilla, di Repubblica, del Corriere della Sera, per citare alcune imprese private. Basta espropriare gli imprenditori e mettere il controllo delle imprese in mano ai Soviet operai. Tutti al minimo retributivo.

Siamo pronti per questo? È questo che vuole la CGIL? È questo che vogliono i tanti teorizzatori delle nazionalizzazioni ?

Io sarei anche d’accordo, ma se non ci sono le condizioni per realizzare la transizione al socialismo, quello che non si può fare è rimanere a metà del guado, né di qua né di lá.

Del resto anche la comunista Cina ha cominciato ad aprire all’economia di mercato una quarantina di anni fa riconoscendo la legittimità della proprietà privata. E si avvia a diventare la prima economia mondiale.

Del resto anche Marx e Lenin erano per il massimo sviluppo della economia industriale, perché più cresce lo sviluppo capitalistico di un paese più si creano le condizioni per il superamento dello stesso capitalismo. Cioè la società socialista fiorisce naturalmente, per Marx e Lenin, direttamente dal massimo sviluppo della società capitalista.

Anche per il più dogmatico comunista dunque la cultura industriale è una necessità, non ci sono scusanti per le culture antiindustriali.

La CGIL quindi può cominciare anch’essa una riflessione sulla necessità di un cambio di passo nel campo dello sviluppo industriale del paese.

Ma in Italia la cultura antiindustriale e sovranista è pesantemente presente in tutte le amministrazioni e permea di sé anche la magistratura oltre che i politici e le organizzazioni sindacali. Qualche esempio: pensiamo al capolavoro straordinario della opposizione feroce al metanodotto transadriatico della TAP in Puglia, o agli investimenti bloccati per 30 anni della Total per la estrazione del gas a Tempa Rossa in Lucania, o far fuggire nel 2012 la British Gas da Brindisi dopo l’investimento già effettuato di 250 milioni, o l’ostilità alla linea della TAV.

Finché non si capirà che il sovranismo, e la sua cultura, sono una malattia, malattia grave, una malattia che si oppone alla internazionalizzazione dell’impresa italiana e alla possibilità di portare in Italia gli imprenditori e i capitali migliori, difficilmente si guarirà il malato Italia.

Pensiamo anche al capolavoro dell’Ilva, dove per cinquant’anni si è permesso una urbanizzazione selvaggia attorno alla più grande acciaieria d’Europa, e dopo la sua privatizzazione, si è di fatto permesso di tutto ai nuovi padroni grazie alla generosa distribuzione di fondi a chiunque, e poi improvvisamente nel 2012 ci si sveglia una mattina, si manda tutti in galera, e si fa fallire l’impresa. Salvo poi cederla ad ArcelorMittal con gara europea, con contratto fornito di relativo scudo penale, nel periodo in cui si sarebbe procededuto alla bonifica ambientale alla quale Arcelor destinò oltre un miliardo, e poi revoca dello stesso scudo, con relativo recesso dell’imprenditore.

Pensiamo anche al capolavoro di Autostrade, nella quale si sbarrò violentemente il cammino all’intervento degli spagnoli di Abertis, per poi cedere il controllo agli italianissimi Benetton, anche loro ben digiuni della materia essendo abituati a fare maglioni, con gli straordinari risultati che conosciamo: crolli, stragi, manutenzione zero…

Allora non si può che essere d’accordo con Pietro Ichino: è necessario liberare il sistema produttivo italiano, e aprire il sistema agli imprenditori migliori, ai migliori piani industriali. E soprattutto dare una nuova centralità e responsabilità ai lavoratori, applicare finalmente in Italia l’art.46 della Costituzione: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende”.

In Germania i lavoratori da oltre un ventennio sono al centro del processo produttivo delle aziende nella quale lavorano, decidendo insieme all’imprenditore la direzione del processo produttivo, condividendo i piani industriali, le regole che le aziende si vogliono dare, permettendo ai lavoratori di partecipare della scommessa della azienda e permettendo la condivisione degli utili.

In Italia la contrattazione aziendale, se permessa sulla carta, è in realtà puramente teorica, ed è invero assolutamente sospetta la convergenza di CGIL e di Confindustria sulla totale chiusura alla contrattazione aziendale. Quasi ci fossero due diverse culture antindustriali che impedissero il dialogo tra imprenditore e lavoratore. La obsoleta diffidenza verso i lavoratori da parte di Confindustria e la altrettanto obsoleta diffidenza verso gli imprenditori da parte della CGIL.

La verità é che la globalizzazione procura ai lavoratori un doppio danno: da una parte aumenta la concorrenza sul piano del mercato dei beni, diminuendo i profitti delle aziende, dall’altro aumenta la competizione sul piano del mercato del lavoro, dando la possibilità agli imprenditori di delocalizzare.

Il risultato é una tendenza o ad abbassare il costo del lavoro o alla chiusura delle aziende.

Per questo i lavoratori dovrebbero anche essi usufruire a proprio vantaggio della globalizzazione. Come? Scegliendo, nel mercato internazionale, i piani industriali più lungimiranti e gli imprenditori e i capitali più affidabili. Come successe nel caso Fiat 2010, l’accettazione da parte dei lavoratori del Nuovo Piano Industriale di Marchionne a Pomigliano, piano industriale che, partendo dalla contrattazione aziendale, é riuscito a rilanciare questo sito produttivo facendo scommettere i lavoratori sul successo di un imprenditore dotato di visione.

Stessa sorte non successe ad Arese nel 2002 alla Alfa Romeo, dove la CGIL si intestardì a voler continuare a produrre le stesse automobili di prima agli stessi livelli contrattuali. E perdendo l’occasione dell’insediamento della Nissan, che lanciò una proposta per un insediamento in Europa gemello di quello di Sunderland in Inghilterra. No, nemmeno a parlarne.

Oggi a Sunderland gli operai guadagnano tra i 28.000 e 32.000 euro netti annuali a fronte dei 15.000-16.000 degli operai Fiat di Arese.

Se fossi un operaio di Arese griderei: “sovranisti sindacali, sovranisti politici, sovranisti italiani, andatevene aff…”