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L’enigma della politica italiana in cinque punti

Presidente Fondazione PER
L’enigma della politica italiana in cinque punti

Come in quel gioco proposto da tutte le riviste di enigmistica che consiste nel collegare dei punti per ricostruire un volto o un’immagine provo a seguite lo stesso schema collegando alcuni eventi che si sono verificati nelle ultime settimane per rintracciare una possibile fisionomia della situazione politica attuale.

La crisi del sovranismo – Il primo punto è sicuramente la manifestazione delle destre il 2 giugno. Al  di là delle mascherine mancanti e dell’assembramento stupefacente quella manifestazione ha certificato che la destra non abbia nulla da dire al paese, non abbia una proposta alternativa a quella del governo rosso-verde per portare il paese fuori dalla crisi attraverso altri strumenti e altri progetti e soprattutto non abbia parole d’ordine capaci di trasformare la protesta in un movimento di più ampia portata politica: sono lo solo protesta e quindi oltre non sanno andare, come del Pappalardo qualsiasi. D’altro canto, tutte le armi del sovranismo antieuropeista appaiono spuntate in tutta Europa, perché la Ue non ha commesso gli stessi errori del 2012-13 e la dottrina Draghi del “faremo di tutto” è stata sposata in pieno dalla sua successora. Parallelamente la Germania ha messo nel cassetto dei suoi nefasti errori anche l’austerity spocchiosa e cieca, che aveva trascinato la Comunità europea sull’orlo della disfatta e del disfacimento, incamminandosi nella direzione opposta insieme alla Francia alla Spagna e all’Italia elaborando il progetto del Recovery fund: ha scelto di stare con Macron e i riformisti invece che con Rutte e il gruppo di Visegrad.

La pandemia ha messo in evidenza che senza Europa un paese come l’Italia collassa – altro che Putin e la “via della seta” – e che la richiesta di legare risorse a riforme rappresenti uno straordinario indirizzo politico che va nella direzione opposta allo statalismo nazionalista di Salvini e Meloni.  Sotto la loro guida l’Italia non uscirebbe solo dall’Europa,  ma ritornerebbe ad essere una semiperiferia ininfluente come era un secolo fa: non Italia “first”, ma italia “latest”. La Pandemia ha cambiato la fase non solo contingente ma lo scenario complessivo del mondo togliendo al populismo sovranista molti dei suoi punti di forza con cui aveva sbaragliato il campo nel decennio precedente: chiusura, antiscientismo, lotta all’immigrazione, antipolitica, filoputinismo antiatlantico.

Ovviamente questa constatazione non significa che la minaccia del nazionalismo illiberale sia sconfitta. Costituisce ancora il principale avversario all’internazionalismo democratico e al riformismo progressista; ma la pandemia ha inoculato nell’opinione pubblica qualche dose di vaccino antipopulista sufficiente a ridimensionarne le spinte propulsive: come il Covid-19 ha perso forza. Un messaggio analogo arriva dagli Stati Uniti, dalla Russia, dal Brasile, dalla Gran Bretagna.

La sfinge – Il secondo punto.  Alla manifestazione del 2 giugno c’era anche uno spaesato Tajani, mandato li dal suo capo Berlusconi che continua a svernare sulla Costa Azzurra in preda a una indecisione politica che ormai ha assunto i contorni di una patologia senile: da un lato vuole continuare a posizionare Fi nel campo del liberalismo conservatore ma europeista e atlantico; dall’altro non vuole abbandonare il campo della destra fingendo di credere – o credendo davvero – che quell’accrocchio tra Salvini, Meloni e lui sia il centro-destra che lui aveva creato con Fini, Casini e Bossi vent’anni fa.  Cosi FI non serve a niente. Non serve a portare la destra sovranista e populista nell’alveo della vecchia area del popolarismo cattolico-liberale perché non ha la forza per farlo e la leadership di Berlusconi non esiste più da tempo, se non per le vestali del suo partito che senza di lui non esisterebbero e non saprebbero cosa fare: resta un flebile controcanto, di fatto  subalterno che non scalfisce l’egemonia populista e nazionalista del duo Meloni Salvini, che ormai non gli rispondono nemmeno. Ma non serve nemmeno a ridisegnare  un area di centro moderata, liberale e europeista perché la Carfagna non basta a determinare lo spostamento del partito in questa direzione, che Berlusconi non ha sposato perché non è farina del suo sacco,  e anche perché probabilmente sa che nel suo partito è maggioritaria la componente che guarda con favore la strategia laghista. Insomma Fi è in mezzo a un guado vittima del narcisismo del suo fondatore e dell’inconsistenza del suo gruppo dirigente, e non si intravede chi sappia indirizzarla verso un approdo politicamente utile al paese. E’ ferma e indecifrabile. Un’accelerazione potrebbe provenire dall’esterno solo nel caso che il Conte II franasse sotto il maglio di un aggravamento della situazione economica, che non riesce a gestire e si rendesse necessario il passaggio a un governo “del presidente” o tecnico – una specie di Monti II – per salvare il paese.  Questa alternativa però non è alle viste e quindi FI continuerà a vegetare in questa irrisolutezza distruttiva.

Un presidente del consiglio senza scopo – Terzo punto. Conte. L’ultima performance televisiva non è stata all’altezza delle precedenti e tutti i sondaggi danno la sua popolarità in discesa. Indubbiamente come era prevedibile chiudere è più facile che riaprire se non si ha una cultura di governo, una visione politica a cui ancorarsi, ma soltanto una certa abilità a equilibrismi tra partiti deboli che a loro volta fanno fatica a esprimere una progettualità all’altezza della sfida. Casalino gli può suggerire di lanciare gli Stati Generali dell’Economia per discutere con Fucksas e Sorrentino o annunciare il Piano di rinascita dell’Italia,  che ricorda tristemente Licio Gelli,  tutto riforme e modernizzazione, senza però effettivi elementi concreti, ma  Conte resta un galleggiatore “senza scopo”  per quel che riguarda il futuro dell’Italia (non si può tenere insieme un grande piano per le infrastrutture materiali e digitali e nazionalizzare l’Alitalia), ma con lo scopo  tutto personale, ormai evidente,  di avere un futuro politico.  D’altronde gli hanno fatto credere di essere il “punto di riferimento dei progressisti”, dopo essere stato il garante del primo governo populista della storia d’Italia.

Conte in effetti risente della disfatta del suo partito di riferimento. I 5S sono in caduta libera non solo elettoralmente, ma soprattutto politicamente: non hanno nessuna idea su nessuno dei dossier di cui dovrebbero occuparsi come ministri o come partito di maggioranza relativa. Sono ormai un gruppo di potere romano, perché nei territori non esistono, che è consapevole di dover rinunciare a tutte le sue balzane idee con cui ha avuto un immeritato successo per stare a galla,  e applica la tattica della resistenza passiva: prima dice di no a ogni provvedimento, poi piano piano acconsente, lasciando però scorie velenose nella scuola, nella giustizia, nelle politiche economiche e del mercato del lavoro.

Non v’è chi non veda infatti che non solo l’eredità del Conte I ha indebolito il paese prosciugandogli risorse sprecate in un assistenzialismo irrazionale e corporativo, ma anche nella elaborazione  degli attuali decreti per la ripartenza l’azione dei grillini, è priva di qualunque baricentro che non siano fumisterie ideologiche che però impediscono alla “nave Italia” di uscire dalle secche pandemiche e dai suoi endemici mali con la rapidità e forza necessarie. Sono una palla al piede spaventosa: basta sentire le dichiarazioni della Azzolina, di Bonafede di Di Maio, di Tridico, ma anche di Boccia, purtroppo,  per capire che stiamo giocando la partita della vita con giocatori di serie C; e  non ci sono ricambi alle viste.

Imporre un’altra agenda spetterebbe al Pd, che si limita invece a contrastare le proposte di Renzi, salvo poi farle proprie, ma in ritardo, e ad adeguarsi a quelle del confuso alleato trincerandosi nella “politica dell’emendamento”,  dei piccoli passi, dei distinguo causidici, in linea con la cultura del PdC.

Pesa sull’azione del Pd, la scelta discutibile di aver trasformato un governo di coalizione tra forze distinte e spesso distanti nel campo di sperimentazione dell’alleanza strategica unilaterale con il populismo grillino, nella convinzione che li alberghino gli elettori di sinistra, perché il M5S è un movimento di sinistra.   Questa scelta strategica che sostanzia il patto tra capicorrente che sostiene Zingaretti segretario sta diventando una zavorra politica, meno grave certo di quella rappresentata dal residuato bellico grillino, ma non irrilevante sul futuro dell’Italia, perché sclerotizza il quadro politico nel quale il Pd svolge una funzione propulsiva del tutto inadeguata e asfittica rispetto alla sua reale forza, ridotta a mero contenimento e a esasperata mediazione  (le proposte di modifica della legge sulla prescrizione lanciate dal Pd in epoca pre-covid sono un emblema di questo modus operanti) con il populismo.

Senza scuola – Quarto punto. L’Italia è l’unico paese europeo che ha chiuso la scuola ma non sa come e quando riaprirla. E’ l’osservatorio che mostra con evidenza i limiti del demopopulismo su cui è costruita la leadership di Conte. La scuola è infatti un campo secondario di intervento governativo che si riduce a garantire l’immissione in ruolo dei precari che la scuola produce per non aver realizzato le riforme che l’avrebbero ridotto, attraverso continue ope legis. Infatti sia gli interventi della ministra Fedeli, sia quelli successivi del duo Buffetti-Fioramonti, hanno ripristinato la concertazione con il sindacato che ha inevitabilmente comportato l’abolizione o il ridimensionamento dei concorsi come strada maestra per entrare in ruolo e l’abbandono di tutti quei provvedimenti della Buona Scuola che introducevano principi meritocratici nella selezione del personale e mettevano al centro dell’azione scolastica la qualità della formazione. E infatti sono stati  aboliti il potenziamento dell’organico dell’autonomia, che avrebbe consentito di avere un organico sempre più coerente con l’offerta formativa di ogni scuola e per il prossimo anno scolastico di prepararsi a gestire l’emergenza; il principio delle competenze attraverso il quale definire il fabbisogno di personale; il meccanismo di programmazione delle immissioni in ruolo che avrebbe dato in questo momento graduatorie disponibili di personale che ha superato un concorso e che aveva già iniziato un percorso formativo adeguato; la riforma delle classi di concorso per ridurne in modo significativo il numero (poche decine al massimo).

Il sindacato si è posto a presidio di una vecchia scuola dequalificata e centralistica, cercando  persino di impedire la didattica on line nel periodo più cupo della quarantena totale, trovando su questo terreno un accordo con la sinistra e il M5S,  che riconferma una concezione della scuola come componete del welfare rivolto a garantire occupazione a una forza lavoro intellettuale di basso profilo, invece che come centro motore della modernizzazione del paese.  Le resistenze di Azzolina e di Italia Viva hanno medicato solo in parte questa deriva assistenzialista e corporativa e non a caso costituiscono l’oggetto del più assurdo sciopero mai indetto in nessun paese del mondo: uno sciopero a scuola chiusa con gli studenti che non sanno come torneranno a scuola fra tre mesi, con un esame di maturità barzelletta, con il piano di riqualificazione edilizia fermo al palo nonostante esistano le risorse, per imporre una nuova sanatoria. 

Magistratopoli  – Quinto punto.  “Magistratopoli”, come il direttore de Il Riformista ha chiamato la crisi dei vertici della Magistratura a seguito del processo intentato al magistrato Palamara e da cui è emerso un verminaio correntizio e una intreccio perverso tra magistratura, media e politica che ha profondamente inquinato non solo l’esercizio della giurisdizione, ma anche la qualità della democrazia, sta cambiando profondamente la fase politica. Anche se la stampa tragicamente coinvolta in questa vicenda tace o minimizza, con le dimissioni dei vertici della Anm e di pezzi di Csm finisce una lunga fase della storia nazionale che ha coinciso con la II repubblica, nella quale la magistratura si era assunta il ruolo del tutto improprio di tutrice della morale pubblica che nelle teorizzazioni dei suoi esponenti più radicali, Davico, Caselli, Di Matteo, De Magistris,  sfioravano  lo stato etico e prefiguravano una sorta di Repubblica dei magistrati, del tutto estranea alla Costituzione, ma capace di tenere sotto scacco la politica per un ventennio.  Basta ricordarsi della famosa intervista di Gherardo Colombo al Corriere della Sera nel 1998 tutta incentrata sulla ricostruzione della storia della Repubblica, dominata dal ricatto e dalla corruzione di  una sorta di “doppio stato” nelle mani della partitocrazia, per cogliere quale sia stato l’itinerario giustizialista che ha inquinato la vita democratica fino alla vicenda di Palamara e che ha aperto le porte al populismo anticasta e antipolitico attraverso l’ipertrofia normativa, le porte girevoli tra impegno politico e l’esercizio della giurisdizione, la cascata delle inchieste “a strascico”  e la loro mediatizzazione: si è irriso e sfregiato l’onorabilità di tanti uomini politici  per avere non “gli ottimati” al potere ma Di Maio e Bonafade ai vertici dello stato.

Ricostruire il sistema della giustizia in Italia è dunque oggi una priorità che va ben oltre gli interminabili tempi della giustizia o l’emergenza carceri e che non si risolve con qualche tecnicismo per eleggere il Csm o ridimensionare il sistema delle correnti, ma che deve chiamare in causa quelle riforme da tempo note e che si sono arenate per il rifiuto della magistratura di ritornare nei limiti costituzionali del potere giudiziario, indispensabili oggi per ricostruire la legittimazione e la fiducia dei cittadini nei suoi confronti.