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Perché la Lega per Salvini Premier non può stare al governo

Direttore d'orchestra
Perché la Lega per Salvini Premier non può stare al governo

Abbiamo sentito la presentazione del programma del presidente Draghi.

Egli dice: “noi abbiamo la responsabilità di avviare una nuova ricostruzione. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale….. Alla ricostruzione del dopoguerra collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte…. questa é la nostra missione di italiani, consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.”

Dice anche: “Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Condividere questo governo significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. …Gli Stati nazionali nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa”.

Cerchiamo di chiarire il riferimento al secondo dopoguerra.

Nel dopoguerra, da un punto di vista sociale ed economico , vi era certamente una situazione simile a quella odierna: erano state rase al suolo 2 milioni di abitazioni e 5 milioni di esse avevano bisogno di urgenti ristrutturazioni, quasi il 10% di tutte le attività produttive erano cancellate, e ben il 25% nel settore metallurgico. Il Pil era caduto del 45%, le comunicazioni e i trasporti erano in condizioni drammatiche con il 50% dei binari e dei ponti inagibili.

Mentre, come disse Ferruccio Parri nel ‘45 gli italiani erano “impegnati a sbarcare il lunario”, vi erano 2 milioni di nuovi disoccupati, oltre alla tragedia dei soldati morti o mutilati o invalidi, e gli oltre un milione di soldati prigionieri o deportati in Africa, Germania, Russia e Estremo Oriente, di cui si erano perse le tracce, e che sarebbero tornati anche dopo anni.

In una tale devastazione, allora come oggi, nacque un governo di unità nazionale, frutto della riunione di tutti i partiti avversi al fascismo.

Vi era la Dc, nata in clandestinità nel ‘42, che aveva una doppia anima: antifascista e interclassista la prima, che si rifaceva alla dottrina sociale della chiesa del Codice di Camaldoli, rivolta al bene comune, alla solidarietà, alla dignità della persona umana, all’uguaglianza dei diritti; e conservatrice e clericale la seconda, formata da tutti coloro che avevano costituito la base del consenso fascista: l’esercito, la magistratura, il pubblico impiego, i ceti urbani e rurali.

Vi era il Partito Comunista, costituito dalla classe operaia e dal ceto artigiano, basato sulla dottrina di Gramsci e di Togliatti di un “partito nuovo”, che pur avendo un legame con l’Unione Sovietica di Stalin e con il movimento comunista internazionale, promuoveva la cosiddetta “via italiana al socialismo”, attraverso la democrazia e il rifiuto della violenza.

Vi era poi il partito socialista di Pietro Nenni, radicato nel proletariato urbano e delle campagne, anch’esso diviso tra i “fusionisti” di Basso che volevano una maggiore vicinanza al PCI e gli “autonomisti” di Saragat e Pertini.

Vi era inoltre il Partito d’Azione di Parri, Lussu, La Malfa e Salvatorelli, un partito fortemente antifascista, basato sull’ideologia liberal democratica e liberal socialista di Piero Gobetti, dei fratelli Rosselli e del filone risorgimentale di Mazzini. Questo partito, di centro ma progressista, non tardò a scindersi in una parte maggioritaria confluita nel PSI e in una minoritaria nel Partito Repubblicano, tra cui lo stesso Parri e La Malfa, infine una parte ancora più piccola, guidata da Calamandrei, confluì nel PSDI di Saragat.

Vi era poi il partito di Benedetto Croce, di Einaudi e De Nicola, il partito liberale, un partito monarchico parlamentare che dava l’appoggio alle politiche liberiste e che guardava con simpatia alla continuità con la storia dell’Italia pre bellica.

Vi erano infine sia il Partito del MSI di Giorgio Almirante, di ispirazione nazionalista, antidemocratica, bellicista, antiparlamentare e razzista, che raccoglieva dichiaratamente parte di quei milioni di fascisti che non sparirono da un giorno all’altro, sia il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, il cui giornale nel 1945 vendette 850.000 copie e il cui motto era “non ci rompete le scatole”.

Questi due partiti raccoglievano sia i fascisti nostalgici sia i cosiddetti “attendisti”, cioè coloro che non si erano mai schierati né con il fascismo né con l’antifascismo, la cosiddetta maggioranza silenziosa.

Alle prime elezioni del giugno 1946 il corpo sociale e politico degli italiani risultava dunque così diviso:

Dc, partito di centro, con il 35,2%, PSI e PCI, il cosiddetto “blocco del popolo” che, sommati tra loro, raggiunsero quasi il 40%, e un restante fronte antifascista formato da PLI, PRI e partito d’Azione che raggruppati davano circa un ulteriore 13%.

Si era quindi formato un vastissimo fronte progressista e democratico, un vasto spazio per dare corpo alle istanze più prettamente antifasciste, e potremmo scommettere che se si fosse saldato il fronte repubblicano, liberale con il blocco del popolo, raggiungendo il 53% dei consensi si sarebbe lasciata fuori la Democrazia cristiana e si sarebbe avuta una storia ben diversa dell’Italia.

Ma Pci e Psi erano divisi, la maggioranza relativa spettava dunque alla Dc, così come l’onere di formare il governo.

La rottura del fronte popolare aveva dato il bel risultato di consegnare il paese alla Democrazia Cristiana.

Va però detto che la Dc, con il primo e il secondo governo De Gasperi, dopo la breve esperienza di Parri, operò con equilibrio creando il governo cosiddetto “della Resistenza”, cioè un governo formato da tutto il fronte antifascista -Dc, Pci, Psi, Pri- governo che nei due anni dal ‘45 al ‘47 diede un contributo a defascistizzare l’alta burocrazia, a epurare dalla direzione del Paese quegli elementi che si erano macchiati di crimini razzisti e fascisti, a creare e istituzionalizzare i primi “comitati di fabbrica”, a introdurre la cosiddetta “scala mobile” e avviare il progresso economico nazionale verso una certa unità delle forze del lavoro e del capitale.

Ma nel ‘47 gli Stati Uniti diedero un aut aut a De Gasperi: la “dottrina Truman” prevedeva che potessero essere finanziati con il piano Marshall esclusivamente quei paesi che non accogliessero partiti socialisti o comunisti al governo e che operassero fortemente per la difesa degli accordi di Jalta.

Nel maggio ‘47 inizió quindi il lungo esilio dalla direzione politica del paese dei partiti del socialismo italiano, dei partiti espressione dei lavoratori e delle classi subalterne.

Cinquant’anni di vera e propria dittatura della Democrazia Cristiana che, facendosi forte della pregiudiziale comunista, si permise qualsiasi abuso, qualsiasi corruzione, qualsiasi degenerazione, finanche, la saldatura con le correnti dei siciliani Lima e Ciancimino, che agivano in accordo con l’organizzazione mafiosa, in un’epoca in cui la magistratura, sempre in nome dell’anticomunismo pregiudiziale, ha sempre operato verso questo partito con una innegabile indulgenza (non é un caso che Mani Pulite sia scoppiata appena dopo la caduta del muro….).

Oggi che la pandemia ci ha riportato alla situazione tragica di quegli anni, con i terribili numeri citati dal presidente Draghi, 93.000 morti, 2.800.000 cittadini colpiti dal virus, la diminuzione della aspettativa di vita di due anni su tutta la popolazione italiana, la incidenza dei “ nuovi poveri” che passa dal 31% al 45% nelle rilevazioni della Caritas, 450.000 nuovi disoccupati, soprattutto giovani e donne, e con l’aumento in solo un anno del 4% nelle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, e con la prospettiva di non riprendere i ritmi economici pre pandemia non prima della fine del 2022, oggi, in questa tragedia, si diceva, ci si pone di fronte ad una situazione simile.

È stato infatti proprio il Presidente Draghi a rifarsi idealmente, nel descrivere il proprio governo, ad un governo “della Ricostruzione”, richiamando proprio la composizione del primo e secondo governo De Gasperi, composto da forze contrapposte: “alla ricostruzione del dopoguerra collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte”.

L’operazione Draghi ha quindi portato, esattamente come nel primo governo De Gasperi, esponenti di fronti opposti in un unico governo, riunendo ora sotto un unico ombrello europeista e atlantista quel fronte vasto che allora si riunì sotto l’ombrello antifascista.

Ma così come dopo solo due anni di governo, Truman mise una pregiudiziale sui fondi Marshall, oggi, l’Europa dovrebbe mettere una pregiudiziale sui fondi Recovery: essi non dovrebbero andare a quei governi che presentino nella propria compagine partiti che si rifanno all’antieuropeismo e alla sovranità della nazione e del popolo.

Si applichi la stessa misura, la stessa discriminazione che fu operata nel ‘47, la stessa dottrina ad excludendum, allora contro la partecipazione al potere dei comunisti, oggi contro la partecipazione al potere dei sovranisti.

Lo Statuto della “Lega per Salvini Premier” esprime all’articolo 1 due soli principi: “Italia repubblica federale” e “sovranità del popolo italiano a livello europeo”.

La Lega per Salvini Premier aderisce al partito “Identità e Democrazia” che all’art.2 riporta espressamente: “rifiutare qualsiasi politica volta a creare un Super Stato o qualsiasi modello sovranazionale”, nella “opposizione a qualsiasi trasferimento della sovranità nazionale a organi sovranazionali e/o istituzioni europee”.

All’art.3 si legge che: “obbiettivo della azione politica è la conservazione dell’identità dei popoli e delle nazioni d’Europa, in conformità con le caratteristiche specifiche di ogni popolo. Il diritto di controllare e regolare l’immigrazione è conseguentemente un principio fondamentale”.

Ora, questi principi sono in contraddizione con le parole di Draghi. La Lega è un partito, per Statuto, anti europeista.

Non si cambia la identità di un partito in una settimana.

Così come gli Stati Uniti nel ‘47 imposero all’Italia di impedire la condivisione del governo italiano con il partito comunista e il partito socialista, oggi l’Europa deve imporre all’Italia di escludere dal governo la Lega per Salvini Premier.

Nel ‘47 non bastò a Togliatti promuovere la via italiana e democratica al socialismo per essere riammesso al governo, oggi non può bastare a Salvini una battuta “Draghi ha sempre ragione” per essere ammesso ad un governo sostenuto dall’Europa.

Il Pd e gli altri partiti della maggioranza Ursula, almeno quelli di sinistra, dovrebbero pretendere dall’Europa che la Lega sia bandita dal governo italiano: non possono essere gestiti i fondi europei da chi ha votato contro il Next Generation.

È appena il caso di ricordare che la Costituzione italiana non é ancora realizzata in Italia. È ora il momento di far finalmente valere quella Costituzione nata dal confronto di quei partiti fortemente antifascisti eletti nella Assemblea Costituente, una Costituzione avanzata e progressista che prevede specifici obbiettivi di partecipazione dei lavoratori alla vita economica e politica del paese, che prevede una pacificazione, finalmente, tra le forze produttrici in Italia, da sempre tenute ostaggio di un capitalismo speculativo e monopolistico, spesso di carattere parassitario, che di fatto, ha ostacolato anche la crescita economica e il progresso civile e sociale del paese.

Sta alle forze democratiche, non esclusa la sinistra cosiddetta “populista”, essere capaci di esprimere una direzione del paese, pretendendo immediatamente un nuovo protagonismo dei lavoratori organizzati, dei giovani, degli imprenditori innovativi e di tutta la comunità produttiva.

Il Pd deve essere, se vuole dimostrarsi all’altezza della propria storia, protagonista di questa fase.

Deve saper lanciare un forte appello unitario a tutto il mondo del lavoro, agli operai, agli artigiani, agli impiegati dei servizi, ai liberi professionisti, alle partite iva, ai tecnici, al pubblico impiego, a tutti coloro che creano valore ma non gestiscono valore, quindi anche ai piccoli imprenditori, agli imprenditori illuminati e ai neo imprenditori, ai giovani in cerca di occupazione, all’immenso potenziale inespresso delle donne italiane, ai ricercatori, agli intellettuali, ai precari, agli sfruttati, ai senza diritti, per creare un grande movimento unitario che esprima una unica idea: la svolta europea deve essere anche una svolta democratica, legata ad una nuova partecipazione dei lavoratori, dei giovani, degli imprenditori innovativi, alla direzione economica e politica del paese, e queste premesse non possono essere realizzate con la Lega che siede nello stesso governo.

La Lega é altro, oggi non può governare l’Italia, e le forze democratiche, riformiste e di sinistra hanno dimostrato eccessiva generosità nel permettere questo passaggio.

Appena passata l’emergenza, il paese deve insorgere contro le capriole e i salti mortali di un partito che vota contro l’Europa e poi ne vuole gestire i fondi, che esalta il più becero sovranismo e poi appoggia un governo che vuole cedere quote della propria sovranità, che vuole sparare sui migranti e poi appoggia un governo che vuole risolvere con l’Europa i flussi di immigrati.

È troppo facile fare politica in questa maniera e non è giusto permettere e tollerare tutto questo.

Il presidente Draghi ci ha detto che “l’unità é un dovere guidato dall’amore per l’Italia”.

Siamo certamente d’accordo con il presidente, ma nel dopoguerra, e fino al 1990, l’atlantismo della Democrazia cristiana non si pose il problema dell’”unità”, nell’escludere dalla partecipazione al governo 12 milioni di elettori italiani rappresentati dal Partito comunista.