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Umberto Veronesi in memoriam

Direttore d'orchestra
Umberto Veronesi in memoriam

Oggi sono quattro anni che é scomparso. A quattro anni dalla morte di Umberto Veronesi, che cosa possiamo dire di lui? Cosa ci ha lasciato in termini di insegnamento, di approccio alla vita, di etica? Quale l’impostazione culturale del suo contributo extraprofessionale ed extra scientifico (e ovviamente extra famigliare!)? Esiste una filosofia che ereditiamo da Umberto Veronesi?

Mio padre possiamo dirlo con certezza, era un popperiano, un ricercatore del dubbio, della falsificabilitá di una teoria o di una convinzione. Una delle sue frasi più ricorrenti era “chi si pone dubbi é destinato a progredire verso la libertà”. Il dubbio però cui si riferiva non era il dubbio cartesiano “dubito, quindi sono”, cioè un dubbio che fonda una certezza che é in grado di costruire una conoscenza a sua volta indubitabile. Il castello del sapere di Cartesio costruisce dal dubbio la certezza di un Dio e di un mondo che si comporta, con il principio di causa ed effetto, in pura modalità meccanicistica.

Il dubbio cui si riferiva papà era al contrario il dubbio di Sant’Agostino, il celebre “si fallor, sum”: se anche mi inganno su tutto, questa azione dell’ingannarmi dimostra che esisto. Mio padre, in effetti, era appassionato di Agostino, e l’agostiniano “la verità abita nell’interiorità dell’anima” risponde alle premesse etiche e scientifiche su cui Umberto ha sempre lavorato: l’interiorità dell’anima altri non era per mio padre che il DNA.

“La verità abita nell’interiorità dell’anima”: l’etica deriva dall’osservazione degli istinti primitivi dell’uomo così come si evidenziano nella eredità genetica; la verità sta effettivamente dentro di noi, sta nel DNA. Questa concezione, chiamiamola neo agostiniana, faceva di lui, in un certo senso, un neo platonico, e nella lotta eterna tra domenicani e francescani, cioè fra San Tommaso e Sant’Agostino, tra Aristotele e Platone, lui stava sempre dalla parte dei francescani: umiltà, mancanza di certezze assolute, devozione assoluta verso il prossimo, altruismo, aiuto a chi sta peggio, aiuto a chi é svantaggiato, vita senza ostentazione, rifuggire l’apparenza.

Queste premesse gli consentivano anche di esprimere una visione teleologica del mondo, una visione lineare del tempo in cui il mondo sarebbe andato verso un fine, a suo modo divino. Per lui il fine del mondo, la finalità suprema, era la pace. Nella pace si sarebbe pienamente dipanato l’istinto primario dell’uomo, inserito nel proprio patrimonio genetico, alla sopravvivenza della specie. L’ideale della pace, si sarebbe realizzato attraverso una società sempre più guidata e governata dalle donne. Nel patrimonio genetico femminile infatti, diceva lui, vi é una maggiore propensione alla pace, alla non violenza e quindi appunto alla sopravvivenza della specie.

La presenza divina, quella verità che abita nell’interiorità dell’anima cui abbiamo fatto cenno, non era altro, per mio padre, che il nostro patrimonio genetico, cui dobbiamo la nostra naturale tendenza alla concordia, alla procreazione, alla costruzione di relazioni, alla tolleranza, alla fratellanza, alla pace appunto. Queste premesse ci portano ad una altro parallelo con Sant’Agostino, il senso della “grazia divina”. Il DNA é il patrimonio che ci portiamo dentro, la nostra verità, che determina il complesso delle nostre capacità e delle nostre attitudini. Non siamo tutti uguali, il DNA é oggettivamente diverso, molto diverso, da persona a persona, per questo ognuno di noi, ogni individuo, é originale, irreplicabile.

Questo complesso di attitudini era, anche per lui, quindi, assimilabile ad una “grazia divina”, ciò che Agostino riteneva necessario per sfuggire al destino di dannazione cui l’umanità era soggetta per il peccato originale. Per Agostino “la grazia é un dono di Dio e le ragioni di Dio sono imperscrutabili per gli uomini” : la tradizione cattolica ha poi insistito sul fatto che le opere dell’individuo possano avere un effetto benefico su questa grazia, mentre la tradizione protestante ha insistito sul contrario, chi é dannato rimane dannato nonostante la sua condotta.

Mio padre ha sempre insistito sul fatto che il DNA di ciascuno, il proprio patrimonio genetico, questa sorta di “grazia divina”, avesse sempre comunque almeno qualche aspetto positivo: chi ha attitudini a far di conto, chi a scrivere, chi al lavoro manuale, chi a cantare, chi a suonare, chi alle relazioni, insomma é difficile che ci fosse qualcuno che non possedesse alcuna attitudine di carattere genetico.

Il segreto, per lui, era che ciascuno capisse quali fossero le proprie caratteristiche genetiche, le proprie attitudini. A tale scopo doveva avere un ruolo forte la scuola, una scuola che capisse, nel profondo, il singolo studente, e che lo stimolasse a seguire le proprie inclinazioni. La scuola-ma anche la medicina-doveva essere votata a decifrare la realtà unica e irripetibile dell’individuo che intendesse formare -o curare-,a comprendere lo studente, -o il paziente-, e creare un percorso formativo,- o terapeutico-, adatto solo ed esclusivamente a quell’individuo.

Quindi la scuola avrebbe dovuto sviluppare la creatività, la fantasia e l’originalità dello studente, invitandolo, talvolta, anche alla trasgressione. Tutto doveva essere fatto per far sentire al giovane la propria individualità, la propria originalità, e in questo senso anche la trasgressione, per lui, aveva una funzione. Il suo invito ai ricercatori a trasgredire le regole, aveva qualcosa di profetico. Sicuramente aveva di molto anticipato le teorie epistemologiche di Paul Feyerabend, che, cioè, la scienza sia una impresa creativa e anarchica, che procede al di fuori di ogni autorità. Ma lui non ne faceva una questione di anarchia, anche qui, in piena tradizione agostiniana, applicava semplicemente l’idea del libero arbitrio.

Il ricercatore, lo studente, il professionista, l’essere umano, deve, per potersi conoscere e realizzare, fare esperienza totale della propria libertà, perché la scienza, la ricerca ma anche la vita é libertà. Solo nella libertà si sviluppa la scienza, solo nella libertà si sviluppa il pensiero. Mio padre diceva “solo la libertà ci fa sentire parte del mondo, e la libertà é una conquista che consiste nel saper scegliere da soli”.

È forte e chiaro qui l’influsso anche di Sartre, autore che rispettava molto, soprattutto nel fatto che la decisione, per lui, era un atto libero, ma importante e serio, che doveva sempre tenere presente le implicazioni e le conseguenze ultime. Infine ogni atto di libertà non poteva non essere sviluppato che con una forte, fortissima, volontà, altro tema che gli era molto caro.

Un altro tasto importante su cui insisteva molto era l’amore. Sappiamo che per Sant’Agostino il male non esiste, cioè il male é essenzialmente mancanza del bene, e il bene si trasmette attraverso l’amore. Ma l’amore é presente anche nella inclinazione genetica alla conservazione della specie, é un amore altruistico, rivolto puramente al bene dell’altro e scevro da ogni connotazione possessiva o violenta. In questo senso, diceva, l’amore più puro é l’amore omosessuale, non finalizzato alla procreazione, e infatti preconizzava un futuro di sostanziale bisessualità diffusa a tutti.

Stesso discorso per la generosità: bisogna essere generosi non perché “bisogna” esserlo, ma perché é stato dimostrato che nel cervello si attivano aree che fanno provare soddisfazione quando si dona. Cioè il nostro patrimonio genetico é generoso, la generosità fa parte della nostra quantità di “grazia divina” che ci portiamo dietro. Discendente da questa premessa egli pregava e invitava chiunque a fare gruppo, affrontare i progetti della vita insieme ad altri: “la presenza di qualcun altro rende più facile ed efficace qualsiasi progetto”.

Un altro aspetto degli insegnamenti etici di mio padre è sicuramente il laicismo: “essere laico significa non accettare posizioni dogmatiche”, amava ripetere. Quindi il dubbio, la mancanza di certezze assolute; anche qui Sant’Agostino: “crede ut intelligas” ma anche “intellige ut credas”, la fede illumina la ragione ma anche l’intelligenza illumina la fede.

Per mio padre la natura era un miracolo, quindi va seguita, analizzata, studiata, e bisogna essere rispetto alla natura in posizione di ascolto. Non siamo noi con le nostre certezze, i nostri preconcetti, a sovrapporci alla natura, viceversa siamo noi a imparare da essa, come ci insegnano la scienza e la tecnologia che impara dal comportamento delle cellule, capaci di ripararsi quando una loro parte viene danneggiata. In questo senso aveva anche compilato una “carta dei diritti degli animali”, purtroppo largamente calpestati dalla società odierna.

Pace, libertà, originalità dell’individuo, fantasia, solidarietà, non violenza, amore altruistico, femminismo, volontà, natura, animalismo. Questi i temi in definitiva promossi dalla attività extra scientifica di Umberto Veronesi, che ho cercato in queste poche righe ad accostare al pensiero, altrettanto milanese, di Sant’Agostino, allievo di Sant’Ambrogio. E per finire ancora con Sant’Agostino: “Quando manca l’Amore, tutto il resto diventa inutile. Quando c’è l’amore tutto diventa utile. Se avrai l’amore, tu avrai tutto.”