Pietro Vignali sindaco di Parma, Simone Uggetti primo cittadino a Lodi, Silvio Berlusconi Senatore. Tre storie a caso, all’ombra del Grande Algoritmo della Legge Severino, quella che ha risolto in modo automatico gli anni delle inchieste a raffica, del circo mediatico-giudiziario, dei cambiamenti politici e amministrativi a suon di gogne e aperture di fascicoli. Il Grande Algoritmo ha fatto rimpiangere i bei tempi, antecedenti al 2012, quando era il giudice –per lo meno una o più persone in carne e ossa- a decidere, in sede di sentenza, se interdire dai pubblici uffici e per quanto tempo, il condannato. Il quesito numero cinque che saremo chiamati a votare con un bel SI domenica 12 giugno è tutto qui. Diamo un bel calcio al Grande Algoritmo, aboliamo la “legge Severino”.
Non è una proposta difficile da capire. Non è contro la magistratura, prima di tutto. Dovrebbero essere i giudici per primi a sostenere questo referendum che restituisce loro quell’autonomia e indipendenza che spesso viene rivendicata un po’ a sproposito. E poi sarebbe anche un bel ritorno al giudicare caso per caso, perché ogni persona processata e condannata costituisce una situazione a sé, un unicum. Guai se non fosse così, saremmo in una dittatura. Ma anche perché il meccanismo automatico è lì a ricordarci che spesso le macchine sono stupide. Perché abbiamo citato tre casi molto diversi tra loro come quelli di Vignali, Uggetti e Berlusconi? Perché ci aiutano a capire, nella concretezza della vita quotidiana, che cosa succede quando l’intervento della magistratura e della stampa si sovrappongono e cancellano il volere popolare, cioè la scelta dei cittadini che hanno votato ed eletto i propri rappresentanti.
E quanto è grave, e antidemocratico, che questo accada con l’automatismo del Grande Algoritmo Severino. Che, non solo sancisce l’incandidabilità e la decadenza (anche retroattiva) dell’eletto in caso di condanna definitiva per determinati reati, ma anche la sospensione dall’incarico per condanne solo del primo o secondo grado di giudizio. Cioè quando l’imputato è da considerarsi ancora innocente secondo la Costituzione. La storia di Pietro Vignali su un piano strettamente formale con la legge Severino c’entra poco, anche perché il “caso Parma”, quando la città di Verdi e di Maria Luigia era la mosca bianca immersa nell’Emilia rossa con un sindaco di Forza Italia, è scoppiato nel 2011, un anno prima dell’emanazione del decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012, la “legge Severino”. Ma è una vicenda che ha molto a che fare con il circo mediatico-giudiziario e con un intreccio arresti-proscioglimenti-patteggiamenti-riabilitazioni che consente solo oggi, a oltre dieci anni di distanza dai fatti, a Pietro Vignali di ricandidarsi a sindaco della sua città per il prossimo 12 giugno. E dopo che abbiamo anche dovuto vedere il primo capoluogo italiano di provincia governato per due consiliature da un esponente grillino (poi ex) come Pizzarotti.
L’ex sindaco di Parma si era dovuto dimettere senza essere neppure indagato, ma i pubblici ministeri gli avevano fatto vuoto intorno, con una serie di arresti effettuati con precisione chirurgica nel suo più stretto entourage. E intanto i grillini, già vivaci in Emilia, portavano le casalinghe a intonare concerti con pentole e pentolini sotto le finestre del sindaco. È così che, prima di verificare la propria forza elettorale, si comincia con l’abbattere per via giudiziaria e mediatica il cinghialone locale. Per poi prenderne il posto. E il Grande Algoritmo Severino aiuta. Ancora meno fortunato di Vignali è stato il suo collega di Lodi, altra storia e altro partito, il Pd, Simone Uggetti. Uno con le ferite ancora aperte, che poi probabilmente si rimargineranno, ma lui nel frattempo sindaco non è più e neanche è candidato per la prossima domenica. Perché puoi anche far parte del partito più garantista del mondo (e non è il suo caso), ma quando devi passare le tue giornate con gli avvocati, quando non sei sicuro che andando per strada non ci sarà un matto ad aggredirti e insultarti, quando senti i bisbigli ipocriti, ti passa anche la voglia. E comunque la tagliola del Grande Algoritmo Severino è nel frattempo già scattata. E poi l’altalena, più faticosa e angosciante, quando capisci che quel che sta succedendo non avrebbe dovuto proprio mai iniziare.
Gli arresti per una gara da poche migliaia di euro in seguito alla solita denuncia, poi le manifestazioni dei partiti avversi, quella gogna a suon di polsi che si intrecciano a mostrare le manette. E passeranno sei anni prima che Luigi Di Maio chieda scusa, ma solo dopo un’assoluzione. Ma almeno lui l’ha fatto, altri no, e l’elenco di chi dovrebbe è lungo. La condanna in primo grado, seguita dall’assoluzione in appello e poi la cassazione che annulla con rinvio fanno oggi di Uggetti un incazzato fantasma del sindaco che fu. Che cosa sarebbe stata la sua vita senza il Grande Algoritmo Severino? Non possiamo saperlo, ma ci piace pensare che sarebbe stata almeno in parte un po’ diversa. Abbiamo tenuto per ultima la storia di vita di Silvio Berlusconi, che certamente sarebbe stata diversa, anche perché nel suo caso l’orrore dell’automatismo ha portato con sé anche l’assurda applicazione retroattiva della norma. I costituzionalisti si erano divisi, all’epoca. Molti, tra cui Valerio Onida, ritenevano fosse necessario un ricorso da parte del Senato di cui Berlusconi era membro eletto, alla Consulta.
La condanna, l’unica che abbia riguardato il Presidente di Forza Italia, era stata la conclusione di un processo assai discusso sia nel merito (soprattutto per l’assoluzione di coimputati che rivestivano ruoli di rilievo nell’azienda), che nel metodo. In particolare tutta la vicenda della cassazione, con la contestazione da parte della difesa sui criteri con cui era stata selezionata la sezione feriale. E in seguito la testimonianza di uno dei giudici che avevano fatto parte della sezione che aveva giudicato Berlusconi, che aveva denunciato l’esistenza di atteggiamenti negativi nei confronti della persona imputata. In questo clima, anche su Berlusconi è calato il Grande Algoritmo Severino. Ma anche il grande errore politico di Matteo Renzi. Lo strafalcione che un leader non dovrebbe mai fare, quello di colpire sotto la cintura l’avversario in difficoltà. Oltre a tutto su una questione giudiziaria che si sarebbe in seguito, con una perversa nemesi storica, rovesciata su di lui e sulla sua famiglia.
Chissà quante volte il leader di Italia Viva avrà ripensato a quel “game over” che di fatto fece cacciare Berlusconi dal Senato. Colui che è oggi il paladino del garantismo in quello stesso Palazzo Madama, si rende conto di quanto la presenza del leader di Forza Italia avrebbe rafforzato anche le sue posizioni sulla giustizia? Forse no, visto che non ne parla mai. Oppure, vogliamo sperare, è il pudore a renderlo silente. Infine: storie politiche, storie locali. Che sarebbero state diverse senza quella legge che i cittadini con il loro SI al referendum per abolire la “legge Severino” possono riscrivere.
