Nei giorni scorsi un editoriale del New York Times ha portato in risalto un problema che, negli USA, sta portando molti giovani sull’orlo di una crisi forte e a rimanere in casa, rinunciare al proprio lavoro, continuare a gravare sulle spese della famiglia – cosa inconcepibile per la classe media statunitense, dove la maggior parte dei ragazzi esce di casa dopo l’adolescenza per non farci più ritorno se non per il giorno del Ringraziamento.
Certo, il sistema economico e sociale degli Stati Uniti è profondamente diverso da quello europeo e ancor di più da quello italiano. Ad esempio, è normale che un americano contragga il suo primo debito quasi in adolescenza per pagarsi il college, mentre in Italia il primo prestito spesso corrisponde al mutuo che sempre di più viene sottoscritto dopo i 30 anni.

Oppure, negli Stati Uniti il sistema del credit score è molto complesso e basato su diversi parametri che non riguardano solo le scadenze non rispettate o la quantità di denaro ricevuta ed è molto facile accedervi, mentre in Italia anche a 30 anni è meglio avere mezzo albero genealogico pronto a garantire per te e l’accesso è più complesso di una laurea in fisica.
Però quasi sempre le tendenze e i fenomeni che nascono dall’altra parte dell’Oceano arrivano anche sulle coste del Mediterraneo: a volte ci va bene, come nel caso di molte tecnologie di uso quotidiano, a volte male, come per le crisi finanziarie o la pizza con l’ananas. Per cui leggere di alcuni fenomeni sociali che riguardano la popolazione più giovane è come leggere quello che accadrà vicino a noi tra qualche mese.
E questo è quello che sta accadendo in USA. A causa dell’inflazione crescente e delle misure messe in atto per cercare di contrastarla, alcuni tassi di interesse di rimborso dei crediti sono schizzati a livelli folli, a volte anche pari al 20 o al 30%. Questo ha portato a rendere più difficile l’accesso a crediti prima invece molto accessibili da parte di tutti, soprattutto i più giovani, e a un uso maggiore dei risparmi, ormai costantemente erosi dalle spese correnti.

Per questa ragione, molti giovani americani stanno rinunciando ad uscire di casa e continuano a pesare sulla spesa della propria famiglia, molti altri stanno rinunciando a proseguire nella loro istruzione, altri ancora stanno rinunciando a trasferirsi per inseguire i propri sogni o il lavoro da tanto atteso per l’impossibilità di far fronte alla quotidianità. Ci sono poi impatti meno misurabili: si stima che due terzi della GenZ a stelle e strisce abbia deciso di “sospendere” le loro aspirazioni personali per il futuro, paralizzando sostanzialmente un’intera generazione. Il rapporto tra giovani e meno giovani si sta polarizzando sempre di più, rendendo ancora più complessa la transizione generazionale in un Paese dove tra un anno molto probabilmente un ottantenne e uno vicino si sfideranno per la presidenza. Alcuni settori iniziano ad essere in crisi per la mancanza di forza lavoro: esemplare è il virgolettato di un giovane americano che diceva “mi ci vogliono 183 ore di lavoro per pagarmi l’affitto. In un mese ci sono 160 ore lavorative”, accompagnando le proprie dimissioni.
Insomma, per farla breve il problema è che la crisi economica sta attaccando anche, e forse soprattutto, la fascia più giovane del Paese, quella che a breve diventerà la più grande fetta di consumatori e che dovrebbe prendere la guida nei prossimi anni. E in Italia? Non va molto meglio già ora.
Con la ripartenza degli anni accademici sono ricominciate anche le proteste degli studenti per il caro affitti. Chi vuole provare a comprare casa deve fronteggiare tassi elevati e in continuo rialzo ormai da mesi, oltre che prezzi del mercato immobiliare sopra ogni logica. L’inflazione è alle stelle in maniera ormai stabile, e i più penalizzati sono gli individui con un reddito basso (come quello della maggior parte dei giovani – quelli che un reddito lo hanno, s’intende) che viene perlopiù destinato a beni di prima necessità, i più impattati dall’inflazione. I pochi che sono riusciti a mettere via del risparmio, magari ancora prima della pandemia, ora non lo investono e lo lasciano completamente fermo, per avere un’ancora di salvataggio a fronte di urgenze e imprevisti.

Gli effetti sono già in parte visibili. Diminuisce la volontà di investire e di consumare, due elementi che invece sono alla base della ripartenza economica del Paese. Diminuisce anche la volontà di costruire una famiglia, con tassi di natalità in continua decrescita e senza troppe speranze di risalita nell’immediato futuro, per via dei costi associati e dell’impossibilità di accedere a supporti certi (si veda la cronica assenza di asili nido, le liste d’attesa infinite per un’ecografia nelle strutture pubbliche…). Diminuisce il numero di laureati: oggi l’Italia è agli ultimi posti nelle classifiche europee e difficilmente avanzerà in classifica se oggi studiare significa (anche) affittare un letto in un appartamento con 13 coinquilini a 800 euro al mese.
Aumenta il divario sociale, perché i più benestanti continueranno ad esserlo essendo meno impattati dagli aumenti generali e a frequentare l’università desiderata e ad avere accesso così a un’istruzione migliore, mentre i meno abbienti prenderanno scelte di comodo, iscrivendosi alla facoltà più vicina a casa anche se non quella vicina ai loro desideri, o rinunciando in toto agli studi o abbandonandoli dopo un anno.
Non voglio cadere nella facile retorica che spesso si legge sulle proteste contro il caro affitti, tra chi procederebbe allo sgombero immediato delle tende piazzate davanti alle Università perché “i giovani devono fare sacrifici” e chi invece li difende a spada tratta senza sollevare la minima critica su modi e richieste. Vorrei però che ci fosse un po’ più di spazio perlomeno per l’ascolto dei ragazzi: capire a fondo le esigenze di oggi per non spegnere le prospettive future. Loro e del Paese.
Abbiamo, come Paese, una manovra da mettere a punto entro poche settimane. Abbiamo l’opportunità di fare qualcosa, di dare perlomeno un segnale ed evitare che la crisi diventi ancor più grave e simile a quella statunitense. Ma, a leggere le prime indiscrezioni, sarà un’altra opportunità persa e nascosta dietro il solito “non ci sono fondi”. Non è che mancano i fondi, manca la volontà.