Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha declamato con solennità, per la ricorrenza del 2 giugno, un discorso alla nazione centrato su di un appello alla concordia ed all’unità nazionale: «C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e nessuna opposizione: l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro». E cita la collaborazione che portò forze contrapposte alla redazione della Costituzione. Bel discorso, che ha subito trovato il consenso di tutti i buoni di questo paese. Ma la netta impressione è quello di una distanza siderale dai problemi del paese. In primo luogo, parte da una mezza verità. Dimentica che, nel dopoguerra, per i manifesti elettorali della Dc i comunisti uccidevano i preti e violentavano le monache, mentre per quelli del Pci i democristiani erano un branco di corrotti mangioni. Questo per non parlare dei contrapposti riferimenti (e finanziamenti) internazionali e delle violenze che avevano caratterizzato al suo interno la stessa Resistenza e che solo pochi hanno avuto il coraggio di raccontare. In secondo luogo, perché non si è dato carico di una rabbia sociale che, oggi, sta cominciando a manifestarsi e che rischia di esplodere.
Durante i tre mesi del lockdown, è stata messa la museruola a qualsiasi voce di dissenso. I ristoratori di Milano, che protestavano preoccupati per il loro futuro, sono stati multati. L’opposizione, che si permetteva di criticare l’operato del Governo, è stata accusata di tradimento e subito messa a tacere. Il Presidente del Consiglio si è esibito in una serie di conferenze stampa via Facebook, che sarebbero state inappropriate anche nella Repubblica delle banane. E il Presidente della Repubblica? Nulla. In questi giorni stanno emergendo episodi di malaffare incredibile, attraverso la pubblicazione delle intercettazioni riguardanti Palamara, che vedono coinvolti molti magistrati e, soprattutto, politici dello stesso partito del Presidente della Repubblica. La gravità di quello che sta emergendo è inaudita: mina alle fondamenta il concetto stesso di stato di diritto. E il Presidente della Repubblica? Sostanzialmente nulla: una dolente nota. Neppure un cenno nel discorso alla nazione del 2 giugno.
Si dirà che il Presidente della Repubblica non ha poteri ed è solo un simbolo. Eppure, nei giorni che hanno preceduto la mozione di sfiducia a Bonafede il Quirinale non ha esitato a far sapere che se vi fosse stata una crisi di governo sarebbero state sciolte le Camere. Con buona pace di quello che in genere si ripete per legittimare le congiure di palazzo: se c’è una maggioranza in Parlamento il Presidente della Repubblica non può non prenderne atto. Letto in questa prospettiva, il discorso del Presidente della Repubblica per il 2 giugno sembra più volto a cercare di mantenere la polvere sotto il tappeto che a dare aria alle speranze e ai desideri di rinascita di questo Paese.
La fine del lockdown sta rimettendo in circolo non solo le persone, ma anche le idee. Cercare di intrappolarle in un generico vogliamoci bene, che non affronta le inadeguatezze di chi governa, le legittime paure per il futuro, le divaricazioni profonde che stanno attraversando il paese, sembra utile solo a consolidare lo status quo e a far dimenticare lo scandalo della vicenda Palamara. E questo gli Italiani non lo meritano.
