Il discorso del quale pubblichiamo un molto succinto estratto fu pronunciato da Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, il 9 marzo del 1977. Esattamente un anno e una settimana prima del suo tragico rapimento e del processo che subì da parte delle Brigate Rosse e che si concluse con la sua condanna a morte e con l’esecuzione. Questo discorso di Moro è un monumento allo Stato di diritto e alla difesa dell’autonomia della politica e della dignità della politica.
Oggi nella giunta per le autorizzazioni del Senato inizia la discussione sulla possibilità di mandare a processo l’ex ministro Salvini. Se non ci saranno ripensamenti da parte di qualche partito, o di un gruppetto di senatori, Salvini andrà a processo, come, nel 1977 – nonostante la strenua difesa di Moro – toccò al democristiano Luigi Gui, padre della riforma della scuola, e al socialdemocratico Mario Tanassi.
C’è una qualche affinità tra questo processo e quello? No, nel merito. Le affinità stanno nella scelta dei partiti di votare secondo schieramento e non secondo diritto o secondo coscienza. Molti brani di questo discorso di Moro sono validi ancora oggi e possono tranquillamente essere usati nella discussione su Salvini. Soprattutto il rifiuto del fare coincidere scelta politica e reato e l’ammonimento sulla paralisi della politica. Chissà se qualcuno vorrà ascoltare Moro. Probabilmente no. Moro non c’è più nel Parlamento italiano: non c’è più, non c’è più, non c’è più.
Aldo Moro
So con certezza, e sento acutamente, che siamo chiamati a mettere, ovvero a non mettere, in stato di accusa dei cittadini, siano o non siano essi ministri; a queste persone la condizione di accusati – se a tanto si deve arrivare – deriverà dalla nostra decisione, mentre per altri nelle medesime circostanze scaturisce da un atto della magistratura. Questa è la nostra responsabilità, disporre cioè, sia pure in modo non definitivo, della sorte di uomini, dell’onorabilità e della libertà delle persone, come accade appunto ai giudici il cui penetrante potere viene dalla legge appunto temperato e circondato di cautele.
Alto e difficile compito è dunque il nostro, specie in presenza della diffidenza, del malcontento, dell`ostilità che, bisogna riconoscerlo, predominano oggi nell’opinione pubblica. Dinanzi ad un potere come questo, avendo nelle nostre mani il destino di altri uomini, anche la più piccola disattenzione sarebbe inconcepibile ed inammissibile.
L’affidarsi a frammentarie notizie della lunga vicenda; il pensare che tutto sia stato già udito e compreso; immaginarci in una sorta di situazione obbligata, in una posizione di partito, in una ragione di disciplina; l’essere in una esigente corrente di opinione: tutto questo è in contraddizione, tutto questo è incompatibile con la funzione del giudicare.
Abbiamo dinanzi degli uomini e dobbiamo saper valutare con lo stesso scrupolo, con lo stesso distacco, con lo stesso rigore, i quali caratterizzano l’esercizio della giurisdizione. Perché anche noi, pur con tutti i nostri dibattiti politici, siamo oggi, se non nella forma, nella sostanza, dei giudici. Lo siamo noi, come lo sono i nostri egregi colleghi dell’Inquirente.
Un aspetto del giudicare, infatti, nella naturale dialettica delle posizioni, è l’accusare, il porre un carico di responsabilità, certo, sul piano strettamente giuridico, ipotetico; ma sul piano umano, già attuale, sopportato, pesante. Questo è un momento, ed un momento essenziale, del processo […] Non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è di lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto.
No, siamo in ballo anche noi; c’è un dovere di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona. […] È quindi comprensibile che, come noi non possiamo rinunciare a compiere ora, in piena autonomia, con grande serietà il nostro dovere, neppure gli interessati possono, per superare un ostacolo politico, per approdare alla oggettività della giurisdizione, confessarsi degni di accusa e chiedere il rinvio al giudizio della Corte costituzionale.
Se essi facessero così, se rinunciassero al dibattito, alla contestazione, alla dialettica di questa fase del processo, non soltanto compirebbero un lungo passo verso la condanna, ma verrebbero essi proprio a disconoscere la funzione illuminante e responsabile della pronuncia del Parlamento e ci esonererebbero indebitamente dalle nostre precise responsabilità. Dobbiamo dunque giudicare, formulare quel primo giudizio che si esprime in un atto di accusa, nel profilare, almeno come possibile o probabile, una responsabilità penale. La gravità di questo atto esige una adeguata motivazione. […]
Se dobbiamo cogliere l’opinione pubblica, valutarne gli stimoli ed accentuare la nostra capacità critica, non dobbiamo, però, seguirla passivamente, ammiccare a lei, rinunziando alla nostra funzione di orientamento e di guida. Fare giustizia sommaria, condannare solo perché lo si desidera, offrire vittime sacrificali, ebbene, questo non sarebbe un atto di giustizia, ma pura soddisfazione di una esigenza politica.
L’obbedire alla opportunità, benché la politica sia, in un certo senso, il regno dell’opportunità, non paga; colpire delle persone, senza che siano date rigorosamente le condizioni che ne giustificano e richiedono la condanna, è un atto di debolezza ed una violazione dei principi. Ed i principi sono, nel nostro ordinamento repubblicano, il rispetto della persona e la libertà, se la legge non lo impone, dall’accusa e dalla pena. Ciò vale sia se si tratti di ministri, sia se si tratti di semplici cittadini. Sono parimenti inammissibili una condizione di privilegio ed una condizione di pregiudizio, indistintamente, per tutti. Trasformare in reati atti di ufficio, finché non ne sia obiettivamente dimostrato il collegamento con un fenomeno di corruzione, è una violazione dei diritti dell’uomo ed una distorsione dell’efficace svolgimento dei compiti amministrativi, altrimenti esposti ad essere sempre paralizzati. […]
Questo è un processo fondato sui sospetti e sui pregiudizi. Sono in gioco la libertà e, soprattutto, l’onore delle persone; e questo è un tema al quale il Parlamento è sempre stato estremamente sensibile. Perché mai dovrebbe dimenticare, oggi, questa alta ispirazione che gli fa onore? Perché dovrebbe cedere alla passionalità ed a non motivati orientamenti dell’opinione pubblica? […]. Naturalmente, ho sensibilità politica quanto basti per comprendere quanto sia difficile, per taluni di noi, imboccare questa strada. So che occorre molto coraggio e la capacità di affrontare una certa misura di impopolarità
[…] C’è il rischio obiettivo di un’inammissibile politicizzazione e quello, altrettanto grave, che il nostro comportamento sia considerato inficiato da ragioni di parte, in una qualsiasi direzione. […]
Intorno al rifiuto dell’accusa che, in noi, tutti e tutto sia da condannare, noi facciamo quadrato davvero. […] A chiunque voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come sì è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l’appello all’opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita.
Non accettiamo di essere considerati dei corrotti, perché non è vero. […] E, come frutto del nostro, come si dice, regime, c’è la più alta e la più ampia esperienza di libertà che l’Italia abbia mai vissuto nella sua storia, una esperienza di libertà capace di comprendere e valorizzare, sempre che non si ricorra alla violenza, qualsiasi fermento critico, qualsiasi vitale ragione di contestazione. Non si dica che queste cose ci sono state strappate. Noi le abbiamo rese, con una nostra decisione, possibili ed in certo senso garantite. […] Noi non ci faremo processare. Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell’opinione pubblica.
