Mentre Castel dell’Ovo perde pezzi di tufo millenario, il Comune avvia l’intesa con Invimit, società partecipata del Ministero dell’Economia, e il miracoloso patto per Napoli entra nella sua prima fase di applicazione, diretta alla valorizzazione del consistente patrimonio immobiliare comunale, che sulla carta, come risulta dal bilancio consolidato 2020, è valutato a circa 8 miliardi di euro (3.537.891.507 i fabbricati e 3.796.433.114 i beni demaniali). L’amministrazione comunale, che avrebbe dovuto già ricevere la prima tranche di contributo statale a fondo perduto, pari a 54.151.684 di euro, sta adempiendo agli obblighi imposti dal Patto e definite dal Diktat – comma 572 della legge di bilancio 2022. Invimit dopo un censimento del patrimonio, metterà “in vetrina” i beni da piazzare sul mercato (come sta facendo per i palazzi romani) e per altri beni di carattere demaniale definirà piani di valorizzazione.
Certo è difficile farsi una idea di come sarà valorizzata la Galleria Principe di Napoli, lo strumento più immediato che viene alla mente potrebbe essere quello di imporre un pedaggio per il transito dei pedoni, a cui è risparmiato il lungo giro dell’isolato. Più facile immaginare cosa accadrà agli immobile commerciabili. Come stabilito nell’intesa, in una prima fase, un pacchetto di immobili, circa 600, sarà consegnato ad Invimit per un valore stimato di circa 30 milioni di euro, ed immessa sul mercato. Il 30 per cento dei proventi dalla valorizzazione, circa 9 milioni, sarà poi trasferito al costituendo Fondo Napoli. Non è molto, e non è questo lo strumento più idoneo per risolvere il problema del disavanzo (che ammonta, lo ricordiamo, a 2.465.841.756) e tantomeno servirà a ridurre il debito (di 4.899.650.012). Occorreva invece aggredire il meccanismo perverso che genera il disavanzo e debito, innescato da tre fattori: la scarsa capacità di riscossione delle entrate, gli elevate tassi di interesse richiesti dalla Cassa Depositi e Prestiti per i mutui concessi e le rigide regole di redazione del bilancio consolidato.
La mancata riscossione delle entrate (il comune di Napoli ha una capacità di riscossione del 33.55% nel 2020, a fronte di Milano al 64,35% e a sfuggire agli esattori napoletani sono soprattutto le entrate extraerariali, le multe in pratica, riscosse per il 25% circa) genera poste di accantonamento e in particolare il Fondo Crediti di Dubbia Esigibilità, pari oggi a 2.860.657.022, diretto ad evitare l’utilizzo in attivo di entrate di dubbia e difficile esazione, a cui si aggiunge il Fondo anticipazione di liquidità (pari a 1.451.081.812), a copertura dei mutui sottoscritti, e altri fondi vincolati. Tutte queste somme gravano come sottraendi sul risultato di esercizio generando il disavanzo. La presenza del disavanzo obbliga l’amministrazione a contrarre ulterior mutui, prevalentemente con la Cassa Depositi e Prestiti, ad un tasso di interesse oscillante tra il 4 e il 5 %, che è decisamente più alto rispetto ai tassi attuali di mercato, oscillanti intorno all’1%. La Cassa dal 2003 ha una gestione improntata al mercato (è controllata per circa il 16% da diverse fondazioni bancarie), e la richiesta di tassi così elevate è molto probabilmente motivata dalla elevata probabilità di default attribuita al comune partenopeo.
Tutto questo si traduce in una rata annuale di rimborso pari a 22.143.061,86 a titolo di quota capitale e di 59.273.835,06 a titolo di quota interessi. Il lettore potrà valutare che il tanto miracoloso Patto per Napoli, con una tranche di 54 milioni, o meglio 40.613.763 al netto del contributo di 1/4 a carico del Comune, non serve neppure a pagare la quota di interessi annuale. Più utile sarebbe stato un intervento diretto a rinegoziare i tassi: una riduzione di appeno lo 0,50% del tasso praticato sui mutui comporterebbe una diminuzione degli interessi passivi di circa 140 milioni fino al 2044. Inoltre ottenere norme meno stringenti di redazione del bilancio per i fondi di accantonamento avrebbe dato un respiro di sollievo alle amministrazioni che operano in realtà economiche difficili, come Napoli.
Il Patto è quindi soltanto un contagocce per prelevare acqua da un secchio. É certo che il Patto avvia solo un nuovo modello di gestione del patrimonio pubblico napoletano improntato ad un approccio di mercato, e se si accetta di lasciar fare al mercato, bisogna obbedire alle sue inesorabili leggi che ovviamente comprendono anche meccanismi di carattere speculativo. In questa fase storica del capitalismo patrimoniale, in cui la ricchezza non è più legata al profitto, ma alla rendita, e in presenza di aspettative inflazionistiche in crescita, il mattone diviene la forma di investimento più appetibile e l’operazione servirà a impinguare i patrimoni dei più ricchi, mentre ai cittadini sarà richiesto il pedaggio per il passaggio in galleria Principe di Napoli.
