Cultura
Cento anni fa nasceva Charles Bukowski: una vita tra scotch, puttane e bassifondi
Charles Bukowski è venuto al mondo della scrittura, del racconto, per dimostrare che non tutti i letterati sono burocrati metodici, ambiziosi complessati destinati alla pagina da riempire, metti, con scene familiari edificanti; esattamente, non tutti gli scrittori sono piccini e perbenisti. Forse, basterebbero queste parole per ricordarne il transito sulla terra della poesia a cent’anni dalla nascita, 16 agosto 1920.
Bukowski in verità è stato assai di più di un conclamato mito irregolare dell’esistenza letteraria l’uomo ha infatti colmato l’immaginario magazzino poetico Made in Usa, e non soltanto questo, con inenarrabili cataste di lattine di birra, vuoti a perdere, o già perduti, e ancora d’altre sublimi innominabili bassezze alcoliche, e nel far questo ha mostrato una capacità di struggimento lirico indicibile, lo stesso che andava di pari passo con la sua attenzione al corpo femminile, all’eros, al sesso, al racconto delle forme del piacere come risorsa dionisiaca, «Se succede qualcosa di brutto/si beve per dimenticare;/se succede qualcosa di bello/si beve per festeggiare; /e se non succede niente/si beve per far succedere qualcosa» – proprio lui, Bukowski, il viso come cratere bombardato dall’acne, Henry, Charles, anzi, “Hank”, il Butterato, il Poeta, l’angelo custode di se stesso, l’innocente che monta di guardia al frigorifero, con questo elevato a tabernacolo, altare, astuccio, nel suo bianco smaltato pronto a custodire l’ostia suprema dell’alcol.
Anche per queste ragioni assai discutibili agli occhi della morale letteraria borghese, ordinaria, nel solco di Rimbaud, della visionarietà sessuale dei Tropici di Henry Miller o dell’apoteosi di un culo di danzatrice da raggiungere come avviene in Louis-Ferdinand Céline, e ancora di Hemingway e, certamente, di Antonin Artaud, per lunghi anni, i suoi libri hanno tenuto compagnia a ragazzi e ragazze, alla generazione di insorti contro le bugie del moralismo, certi che l’incanto passi anche dalla rottura del limite, poiché, afferma Willian Blake, «La via dell’eccesso conduce all’edificio della saggezza». Perfino letteraria.
Bukowski come prolungamento estenuato della narrazione beat, ma forse anche molto di più, assodato il profilo umano, il volto, l’icona, la “veronica” della persona, del personaggio, dell’uomo, dello scrittore, dell’irriducibile al galateo di un improbabile per lui Premio Nobel.
Nella memoria fotografica svetta, in questo senso, ancora adesso, su tutte, la copertina di “Compagno di sbronze” (“Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness”, nell’edizione originale), dove B., pancia a stento trattenuta da un t-shirt scura, impugnando una birra, appare al fianco dell’amica Georgia Hubbard, volti dimessi, sublimemente sfatti, l’impresentabilità delle calze giù fin sulle zeppe di lei, il sorriso-rutto trattenuto di lui, un’immagine-manifesto generazionale, forse uno scatto che sta al piacere dell’abbandono così come il poster di Geronimo fucile al fianco sta alla ribellione. Hank come uno zio, se non un padre, ideale, perfetto nella sua oscenità, per immaginare un’altra possibile esistenza.
Il frigo di Bukowski è nel medesimo tempo reliquia industriale e Porta dell’Eden, cenotafio del piacere e apoteosi del quotidiano contro ogni metafisica letteraria. Nelle tasche dei ragazzi sul finire degli anni Settanta, il suo volume dove, fra molto altro, si legge perfino che “Herb apriva un buco nel cocomero e si fotteva il cocomero e poi obbligava Talbot, Talbot il tappo a mangiarselo”, brillerà come oggetto d’affezione, forse perfino libretto di istruzioni e manutenzione dei confini dell’amore, del piacere, della fuga, dell’effrazione, perché Bukowski, agli occhi dei giovani che ne hanno subito scoperto la scrittura, era davvero un amico cui accompagnarsi, per nulla assimilabile ai colleghi titolati, ammesso che ne abbia mai avuti. C’è una scena nel film che Marco Ferreri gli ha dedicato, Storie di ordinaria follia (1981), non un capolavoro, in cui Charles Bukowski-Ben Gazzara si ritrova finalmente “ingaggiato” da una grande casa editrice, lì, alla scrivania, come travet, forzato della scrittura, un attimo appena ed eccolo a lanciare i fogli di carta appallottolati, incipit mancati, abortiti, oltre il cestino della cella-open space che lo accoglieva, ne fuggirà.
Amava le corse dei cavalli, scommettere, vincere perdere rivincere riperdere, controllare i vincenti e i piazzati, amava il suo maggiolone Volkswagen al pari del sacro santissimo frigo, giù dallo specchietto retrovisore custodiva la croce di ferro ricevuta dal nonno in guerra. Henry Charles “Hank” Bukowski Jr., al secolo Heinrich Karl Bukowski era infatti venuto al mondo in Germania (ma va ricordato anche come Henry Chinaski, suo alter ego letterario) ad Andernach, il 16 agosto 1920. La fine avrà invece Los Angeles, il 9 marzo 1994, come luogo, naturalizzato statunitense. L’America aveva già accolto la sua famiglia sul finire dell’800.
Wolinski, come lui a cuore il sesso, in occasione di un suo soggiorno parigino nei primi anni Ottanta, lo ha raccontato in una vignetta dove B. vomita letteralmente addosso all’intervistatrice, e quest’ultima si mostra tra stupefatta ed entusiasta, in quel vomito c’è, metaforicamente, lo scrittore, il suo dono. In verità, il riferimento è al suo exploit televisivo ad “Apostrophes”, storico talk di Bernard Pivot dedicato ai libri. Nel video imperdibile (lo trovate in rete, e ne suggeriamo la visione) Bukowski, ubriaco, non regge i doveri della diretta, il conduttore comprende la necessità di lasciarlo andare, allontanarlo, i volti turbati dei civilissimi colleghi presenti, lo squadrano come fosse un insetto, l’uomo si alza, malfermo sulle gambe, si appoggia sulla testa del vicino di poltrona, ed è ora il momento di comprenderne l’assoluta grandezza, la sua immensa alterità: lo si vede barcollante allontanarsi di spalle, oltre il perimetro dello studio, per un attimo la camera si sofferma su di lui sebbene l’uomo sia già fuori dal campo della rappresentazione televisiva, non certo letteraria, Bukowski se ne va, portando con sé il banale e il conformismo, non resta che ravvisare in lui l’inurbano, l’osceno, l’alcolista, il passo malfermo dell’ubriachezza, forse anche molesta, l’irriducibilità alla piccinerie e ai doveri letterari.
Ebbe anche modo di misurarsi con il mondo del lavoro, impiegato postale, postino: «C’è un uccello azzurro nel mio cuore che vuole uscire», scriveva.
Forse, meglio d’ogni altro, è stato Robert Crumb, gigante dell’illustrazione, a restituircelo, assorto, nella sua casa di San Pedro, California, sul bordo della piscina, il gatto a far caso ai suoi pensieri, le donne – Tina, Ann, Barbara, Joan, Pamela, Amber, Linda, Georgia, Frances, la figlia Marina Louise – ora chissà dove. Sulla tomba è “Henry Charles Bukowski – Hank – Don’t Try – 1920-1994”, accompagnato dalla piccola sagoma di un pugile. Chi ancora adesso va a trovarlo al Green Hills Memorial Park di Rancho Palos Verdes, lascia sul prato una bottiglia, non prima di averla bevuta alla salute immortale di Hank. Tra lui e la vita è stato un incontro pari.
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