GERUSALEMME

L’attesa e l’ansia crescono mentre Israele sembra ancora dovere metabolizzare quanto deciso a Sharm el-Sheikh. Per i cittadini dello Stato ebraico, di qualsiasi estrazione sociale e appartenenza politica, il ritorno degli ostaggi è un sollievo. La chiusura di un cerchio aperto con il massacro del 7 ottobre 2023 e chiuso, forse definitivamente, con l’accordo voluto dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Tutto è pronto. L’esercito israeliano ha fermato il fuoco e ha iniziato già da ieri a ritirarsi entro la linea disegnata dalle mappe dell’intesa siglata in Egitto. Un processo completato in poche ore. Secondo le Israel defense forces sono già in corso i preparativi per accogliere gli ostaggi, che dovrebbero essere consegnati alla Croce Rossa senza però quelle drammatiche cerimonie propagandistiche realizzate durante gli ultimi accordi.

Nel frattempo, la popolazione della Striscia di Gaza ha iniziato a tornare verso nord, o almeno a provarci, rischiando però di essere fermata dal fuoco di sbarramento di Tsahal, che non vuole che la marea umana che torna a Gaza e in altre aree possa rivelarsi un pericolo per le proprie truppe e nemmeno per l’eventuale trasferimento dei rapiti. La zona settentrionale della Striscia, come confermato dall’esercito, rimane ancora un’area operativa e ad alto pericolo. Tuttavia, l’impressione è che qualcosa sia effettivamente cambiato. Netanyahu ieri ha visitato il centro medico Sheba Tel Hashomer per vedere di persona i luoghi in cui saranno accolti gli ostaggi appena liberati. Il premier ha anche salutato i militari feriti e ricoverati lì in ospedale. “Siete degli eroi. Avete salvato lo Stato di Israele e avete risollevato il nostro spirito”, ha detto “Bibi”.

Ma se il premier ha confermato che “le vittorie” ottenute da Israele “stanno cambiando il volto del Medio Oriente”, dall’altro lato lo stesso Netanyahu ha voluto inviare ad Hamas un messaggio molto chiaro. “Hamas sarà disarmato e Gaza sarà smilitarizzata”, ha detto il primo ministro, “se questo obiettivo sarà raggiunto in modo facile, bene. Altrimenti, sarà raggiunto nel modo più difficile”. Una frase che ha un’unica traduzione: Israele è pronto a riprendere la guerra se la milizia non rispetterà gli accordi. La tensione è alta, perché adesso qualsiasi incidente di percorso può causare il crollo dell’intesa. Secondo Axios, lo stesso Trump si sarebbe impegnato personalmente per garantire che pure Israele non violerà il cessate il fuoco e rispetterà le clausole del patto. E questo significa che tutte le parti coinvolte nel processo negoziale non vogliono errori né ritardi. Specialmente l’amministrazione Trump, che su questo accordo ha speso tutto il suo capitale diplomatico.

The Donald è atteso in Israele nei prossimi giorni e Gerusalemme già è pronta ad accoglierlo con bandiere a stelle e strisce. Ieri, il suo inviato Steve Witkoff, il genero Jared Kushner e la figlia, Ivanka Trump, si sono recati in visita al Muro del pianto. “Siamo molto felici che gli ostaggi saranno liberati lunedì”, ha detto Witkoff a La7, confermando che “il presidente Trump sta arrivando qui e molte vite saranno salvate”. A certificare la volontà del tycoon sul rispetto dell’accordo, è uscita anche l’indiscrezione che 200 militari statunitensi, tra soldati e ufficiali, guideranno la task force per monitorare il rispetto del cessate il fuoco. Insieme a loro, che non saranno schierati a Gaza, saranno impiegati anche ufficiali di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia. Secondo il piano, è previsto anche il dispiegamento di forze di Paesi arabi e musulmani nelle aree non controllate dall’Idf, e che saranno coinvolte nel processo di disarmo di Hamas.

Ma il diavolo, come sempre, si annida nei dettagli. Perché se lo Stato ebraico è stato sempre cristallino nel chiedere la restituzione di tutti gli ostaggi (e questo è un elemento su cui non c’è stata discussione), allo stesso tempo c’è tutta una “fase due” che va gestita e ancora negoziata in modo completo. Hamas non sa ancora dove sono i corpi di alcuni ostaggi morti (forse nove). La transizione verso un governo tecnocratico palestinese dovrebbe essere supervisionata da un comitato internazionale di cui non si conoscono ancora bene le caratteristiche né i nomi. E sul disarmo della milizia, i punti interrogativi non mancano. Hamas ha già preteso una distinzione tra armi “difensive” e armi pesanti. Mentre sulla ricostruzione, serviranno decine di miliardi di dollari che dovranno essere investiti da governi ritenuti affidabili anche da Israele e con una gestione che escluda che i soldi finiscano nelle mani di Hamas (che potrebbe sopravvivere).