Dopo mesi di discussioni accese sul conflitto israelo-palestinese, la rapida ascesa di Francesca Albanese merita di essere esaminata con maggiore attenzione. Oltre a narrazioni incisive e a un linguaggio diretto, ciò che sembra una reazione emotiva del momento nasconde in realtà una strategia molto più raffinata. Tra ottobre 2023 e la primavera 2024, i suoi profili subiscono un notevole cambiamento: si passa da dichiarazioni istituzionali a contenuti brevi, professionali e perfettamente virali. Un’evoluzione difficile da interpretare come un fenomeno spontaneo, soprattutto per chi non ha un profilo comunicativo consolidato. Colpisce la sua abilità nel padroneggiare i codici visivi, l’uso di parole chiave e la capacità di suscitare reazioni istintive attraverso precisi stimoli emotivi.

Tutto questo fa riflettere su un lavoro editoriale che va ben oltre l’iniziativa di una sola persona. È difficile pensare che una coerenza così forte tra forma e messaggio, linguaggio e piattaforma, possa derivare da un processo amatoriale. È più plausibile immaginare una struttura, un team – che potrebbe essere informale o distribuito – che supporta la relatrice e costruisce la sua identità digitale come si farebbe con un prodotto. Non si tratta solo di un personaggio pubblico che raccoglie consensi, ma di un sistema comunicativo che genera reazioni, polarizzazione e visibilità.

Ed è proprio il modo in cui viene esposta a suggerire l’idea di un’architettura mediatica ben pianificata, dove nulla è lasciato al caso. E qui si presenta il vero punto cruciale: l’algoritmo. Se un tempo era sufficiente “seguire i soldi”, oggi seguire la logica delle piattaforme è molto più complesso. I criteri di visibilità sono poco chiari, spesso inaccessibili, e distinguere tra spontaneità e amplificazione artificiale è quasi impossibile – soprattutto su temi divisivi, dove i contenuti ricevono una spinta automatica, indipendentemente dalla loro accuratezza.

Il caso della grafica All Eyes on Rafah mette in luce quanto possa essere opaca la viralità online: in sole 72 ore, un’immagine creata con Intelligenza Artificiale ha superato i 60 milioni di condivisioni su Instagram, TikTok e X. Nonostante le politiche di etichettatura dei contenuti AI, non è stato applicato alcun avviso, il che ha contribuito a creare un’illusione di autenticità e a potenziarne l’impatto. Anche se non ci sono prove di manipolazione, il dubbio che la diffusione non sia stata del tutto spontanea è più che legittimo. Applicare questo schema alla visibilità di Francesca Albanese non è affatto inverosimile. E l’accelerazione della sua visibilità, il rilancio simultaneo da parte di account di massa, la qualità sempre più alta dei materiali audiovisivi e la ripetitività sincronizzata del linguaggio alimentano un sospetto fondato: non stiamo assistendo a un fenomeno spontaneo, ma a un vero e proprio progetto comunicativo.

Francesca Albanese ha trovato nella tragedia il suo veicolo, ma il suo brand ha radici altrove. È una costruzione intenzionale, figlia della stessa logica descritta dalla dottrina Gerasimov sull’ibridazione tra propaganda, cultura e operazioni non convenzionali. Oggi questo approccio è perfettamente in linea con i meccanismi del “discorso guida” che le grandi piattaforme promuovono attraverso modelli predittivi e selezione algoritmica.

Per questo non basta più guardare chi scrive i contenuti. Bisogna indagare chi li spinge, chi li perfeziona, chi ci guadagna. Quando il racconto diventa una risorsa strategica, c’è sempre qualcuno pronto a investire per controllarlo. E certe ascese troppo rapide fanno pensare che voci come quella, quando intercettano il vento giusto, attirino facilmente l’interesse di chi sarebbe disposto a tutto pur di amplificarle, guidarle o metterle nelle condizioni ideali per emergere.

Alex Zarfati

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